Il fascino perenne di Qoelet. Perché l’Ecclesiaste ancora oggi riesce a entrare nei cuori e nelle menti di tanti, dai monaci agli artisti rock?

Qoelet parte dall’esperienza del dolore, della sofferenza, dalla constatazione della fine del qui e dell’ora.

Il fascino perenne di Qoelet. Perché l’Ecclesiaste ancora oggi riesce a entrare nei cuori e nelle menti di tanti, dai monaci agli artisti rock?

Questo “Qoelet” (San Paolo, 140 pagine, 14 euro), di Sandro Carotta, monaco benedettino nell’abbazia di Praglia, è l’ennesima prova dello sterminato fascino del libro dell’Ecclesiaste attraverso i millenni. Non tanto e non solo un inno al pessimismo antropologico, come pensano molti esegeti -e come ricorda lo stesso autore di questo libro-, ma molto altro. Un inno alla accettazione dello svolgersi delle umane sorti e della loro inevitabile fine, ma non il pessimismo della disperazione, perché l’occhio, la mente e il profondo dell’essere avvertono che questo vivere e morire è traccia di altro. E fa bene Carotta a ricordare che senza l’impronta del Cristo quel “un tempo per nascere e un tempo per morire” potrebbero essere semplicemente la testimonianza della coscienza della fine, quella che porterà Nietzsche alla certezza dell’eterno ritorno del sempre uguale.
Se non ci fosse questo divino soffio di accettazione del tempo per ogni umana cosa non avremmo infinite testimonianze di una attrazione che non è quella del filosofo di Zarathustra, ma di una apparente notte in cui si vede la presenza rassicurante delle stelle e la percezione paolina di una luce d’alba imminente.
Non avrebbe affascinato un grande poeta alla ricerca di sé stesso, Thomas Stearns Eliot, che nel 1915 pubblica in rivista uno dei suoi capolavori, “Il canto d’amore di J. A. Prufrock”, cercando quella luce che lo porterà poi attraverso la “La terra desolata” al “Mercoledì delle Ceneri”, in cui regna sovrana la fascinazione di Qoelet: “Ci sarà tempo per uccidere e creare, e tempo per tutte le opere e i giorni delle mani”.
Ma la persistenza di Qoelet, grazie anche ad Eliot, va oltre, in territori incogniti, là dove molti non si aspetterebbero: nella canzone di protesta, ad esempio, grazie ad uno dei suoi inni, quel “Turn turn turn” di Pete Seeger (cantata nelle marce per la pace e contro le discriminazioni razziali) diventata poi un successo elettrificato nella versione dei Byrds (gli stessi che porteranno in vetta alle classifiche “Mr. Tambourine man” di Bob Dylan): c’è “un tempo di amore, un tempo di odio/ un tempo di guerra, un tempo di pace/ un tempo in cui ci possiamo abbracciare, un altro per astenersi dagli abbracci”.
E non è finita qui, perché l’Ecclesiaste ha affascinato il cinema e la musica rock, come è capitato allo storico gruppo partenopeo degli Osanna che ha inciso la colonna sonora di un film di Fernando Di Leo, “Milano calibro 9”. In questa “Canzona” (alla maniera medioevale) che reca come sottotitolo eloquente “There will be time”, “ci sarà il tempo”, scritta da Luis Bacalov, ascoltiamo alcune parole che riecheggiano Qoelet e Eliot: “ci sarà tempo per morire e per creare/ (…) ci sarà tempo per ogni guerra e ogni pace”, il tutto condito da elettronica, orchestra, lancinanti chitarre distorte.
Il fatto è che Qoelet parte dall’esperienza del dolore, della sofferenza, dalla constatazione della fine del qui e dell’ora. Non uno smielato inno al sorriso, ma la presa di coscienza del percorso, delle trappole, dei rischi: i conti con la realtà di un testo che però allude ad una vicinanza, ad una sorta di strada per Emmaus tre -o forse quattro- secoli prima di quell’evento che ha cambiato il mondo.

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Fonte: Sir