La piaga della miseria, la vergogna degli sprechi. La povertà tra letteratura e arte

La povertà è stata sempre una delle minacce più temute dall’uomo, tanto da essere stata, fin dagli inizi, argomento di narrazioni, poetiche, rappresentazioni artistiche.

La piaga della miseria, la vergogna degli sprechi. La povertà tra letteratura e arte

La povertà è stata sempre una delle minacce più temute dall’uomo, tanto da essere stata, fin dagli inizi, argomento di narrazioni, poetiche, rappresentazioni artistiche, non solo di studi economici e progetti politici. Il grande Rembrandt, ad esempio, era quasi affascinato da quelle famiglie povere che, siamo negli anni trenta e quaranta del Seicento, bussavano alle porte per avere un tozzo di pane, con sciami di figli malnutriti al seguito: ce lo racconta, tra gli altri, T. Todorov con il suo Il caso Rembrandt (Garzanti). La tragica carestia in Irlanda nei Quaranta del diciannovesimo secolo fu dolorosamente rappresentata da W. H.  Deverell e diversi altri artisti, e non occorre andare lontano perché al Museo Revoltella di Trieste è conservato il quadro di Jean J. H. Geoffroy, Gli affamati, (1886) con vecchi, giovani, donne e uomini a circondare una pentola in strada (per questo, anche online: Uno sguardo al piatto vuoto. Fame e povertà nella pittura del XIX secolo in Europa di Maurizio Lorber).

Ma troviamo narrazioni di fame e miseria anche dove non ce lo aspetteremmo, ad esempio in uno dei più celebrati narratori di avventure, il Jack London di Zanna Bianca, che decise di andare a vivere per un periodo nei sobborghi di Londra in mezzo ai derelitti, lasciandocene il racconto in un’opera poco conosciuta, ma di grande impatto emotivo (e conoscitivo): il popolo dell’abisso. Un racconto di miseria e di poveretti che non possono neanche dormire sulle panchine dei parchi perché sloggiati dai gendarmi, che fanno file lunghissime alle mense, oltretutto vittime di un inquinamento (non ci crederete ma siamo nel 1903) con l’aria satura di acido solforico.

Qualche anno prima, nel 1881, Verga ci aveva presentata nei Malavoglia una povertà causata da un incidente di mare: non solo operai sfruttati, che vediamo morire alcolizzati in alcuni romanzi di Zola, ad esempio L’Assomoir (tradotto talvolta in italiano come Lo Scannatoio o L’Ammazzatoio, 1877), ma pescatori che tentano il salto e vengono travolti dalla marea di un progresso che non conosce pietà. E lo stesso Verga ci presenta in un suo splendido racconto, L’ultima giornata, le ultime ore di un poveretto senza più speranza di trovare lavoro, che si lascia investire da un treno, tra l’indifferenza della gente.

Per non dimenticare un altro toccante racconto, quello di Renato Fucini che in Vanno in Maremma (1884) narra dell’incontro tra un ragazzo e una famiglia di viandanti che se ne vanno a cercare lavoro oltre cento miglia più in là con tre bambini al seguito, in mezzo alla neve. Se non l’avete già fatto, leggetelo, vi dirà molte cose anche sul nostro oggi ancora inutilmente consumista.

Qualcuno ci ha presentato un’altra inquietante faccia narrativa della povertà, quella di un tentativo di riscatto che però porta con sé la rabbia di essere stato escluso dalla società -e dall’amore- perché povero: è il caso del trovatello Heathcliff di Cime tempestose (1847) di Emily Brontë, che si vendica di quell’esclusione dopo la sua ascesa economica, ed è anche quella del ragazzo povero del Grande Gatsby (1925) di F. S. Fitzgerald che, una volta diventato ricco, torna a cercare di riprendersi la donna che lo aveva un tempo lasciato perché non alla sua altezza sociale, affascinandola con le sue grandiose feste.

Ma c’è pure chi fa il viaggio all’incontrario, dal benessere alla volontaria povertà, come nell’insegnamento di Francesco d’Assisi: è il caso di Vitangelo Moscarda dell’ultimo romanzo di Pirandello, Uno nessuno e centomila (1926) che sceglie il ridicolo e la derisione della gente comune, donando i suoi averi e decidendo di passare i suoi giorni in un ospizio per poveri.

Ci vorrebbero centinaia di pagine per raccontare tanti altri abbandoni del sazio occidente, da Gauguin a Stevenson passando per Rimbaud, Tolstoj, Peguy, senza dimenticare un altro russo, Chlebnikov, che passò i suoi ultimi anni da vagabondo, o Reverdy che visse in povertà presso un’abbazia francese. E non sono contraddizioni: letteratura e arte hanno narrato la vergogna della miseria, ma anche l’inutilità degli sprechi. E il sogno di una vita a misura del creato.

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