Lavoro agile e caregiver, “così mi sono ritrovata a lavorare in macchina”

Le testimonianze di mamme lavoratrici che assistono figli con disabilità, raccolte grazie a Confad e Oltre lo sguardo onlus. La paura condivisa è di “non riuscire mai a staccare la spina”. E la richiesta comune è che “l'assistenza domestica ci permetta di dedicarci al lavoro”. Utili per tutti i corsi a distanza

Lavoro agile e caregiver, “così mi sono ritrovata a lavorare in macchina”

“Io non sono così certa dì sostenere che lo smart working abbia favorito i caregiver lavoratori. Dipende anche dal tipo di disabilità: mio figlio urla tutto il santo giorno e io lavoro il 90% del tempo al telefono. Viviamo in 45 metri quadrati. Spesso, se ho delle giornate più piene, sono costretta ad andare a lavorare in macchina. Penso che dovremo trovare una casa su due livelli”: è solo una delle tante, diverse testimonianze di caregiver alle prese con quel lavoro “agile” che la pandemia ha prima imposto in molti contesti e ora sta conservando, in misure, forme e modalità diverse, in buona parte delle aziende. Ma cosa significa “lavoro agile” per un caregiver familiare? E' una possibilità reale, o non piuttosto una sorta di “trappola”, una minaccia alla propria professionalità, perfino alla propria libertà, un passo indietro nel cammino dell'inclusione sociale?

Redattore Sociale lo sta chiedendo ad alcuni caregiver familiari, che raccontano e testimoniano esperienze e vissuti molto differenti tra loro. Così, se per Sabina lo smart working è stata “l'unica possibilità di lavoro”, per alcuni lavorare da casa significa non staccarsi mai dall'impegno di cura. Le testimonianze che riportiamo in queste pagine (compresa quella, particolarmente significativa, che apre questo articolo) ci sono state fornite dal Confad (Coordinamento nazionale famiglie con disabilità) e dall'associazione Oltre lo sguardo onlus.

I racconti del Confad: “Non sia legaccio, ma opportunità”

“Io non credo proprio che rendere lo smart working come una possibilità strutturale favorisca il caregiver familiare: se da un lato gli viene consentito di gestirsi autonomamente il lavoro e il famigliare da accudire, d'altro canto gli viene negata la possibilità di 'staccare la spina'. Bisogna piuttosto insistere sugli aiuti a domicilio, per far si che l'accudimento non sia solo a carico della famiglia. E permettere al caregiver di prendere un po' di respiro. Io ad esempio a lavoro rinasco, sebbene si tratti, anche lì, di un lavoro di cura. Le relazioni interpersonali con il resto del mondo sono davvero importanti, evitano l'isolamento, l'emarginazione e ti fanno sentire viva”.
“Lo smart working ufficializza il fatto che l’assistenza sia solo un affare di famiglia. E ho la sensazione è che sia un altro sistema per ridurre le ore di assistenza, con la scusa che il caregiver riesce a fare entrambe le cose contemporaneamente. In questo modo sminuiamo il lavoro di cura”.

“Lo smart working deve essere concesso solo a chi ne faccia richiesta e non diventare un modo legale di economizzare le spese dì assistenza sulle spalle sei solito noti”.

“Poter lavorare fuori casa significa staccare la spina, cosa impossibile con lo smart working, quando si è caregiver. Io stavo meglio quando lavoravo fuori, rispetto ad adesso che sto a casa 24 ore su 24”.

“Pensate a chi è caregiver h 24. L'emarginazione e l'isolamento sono un incubo costante. Abbiamo bisogno di contare su servizi che funzionino sul serio, per facilitare anche un inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro. Piuttosto, dovrebbe essere incentivata la possibilità di studiare o aggiornarsi da remoto e poter sostenere gli esami. Io sto seguendo dei corsi on-line, che mai avrei potuto seguire in presenza”.
“Lo smart working dovrebbe essere uno strumento che il caregiver possa scegliere a seconda dei bisogni e delle situazioni: non un legaccio, ma un’opportunità. Non deve essere un’ulteriore trappola per noi”.

“Lo smartworking come libera professionista lo esercito da 23 anni: questa decisione di spostarmi lo studio a casa è stata necessaria per il mio ruolo di caregiver. Ma non ho potuto esercitare la mia professione di architetto libera professionista per molti anni. Le cose sono cambiate da quando ho ottenuto un'assistenza domiciliare, che mi fornisce un ampio respiro per potere svolgere serenamente il mio lavoro e mi ha consentito di riprendere la mia vita professionale. Se manca l'aiuto, il caregiver non può svolgere alcun lavoro in smartworking serenamente e viene sminuito il lavoro di cura. Molto utile, invece, la didattica a distanza”.
“Sia che il familiare caregiver abbia un lavoro, sia che non lo abbia, in ogni caso, senza aiuto all'assistenza non avremo mai opportunità pari ed equiparabili a quelle di tutte le persone che non vivono le nostre problematiche legate alla cura e all'assistenza della persona con disabilità. La libertà di scelta passa attraverso l'attenzione che viene prestata alla disabilità gravissima, che limita ogni scelta e movimento al familiare che assiste”.

“Oltre lo sguardo”: servono metri, silenzio, luce e aria

Riflette così Elena Improta, presidente di Oltre lo sguardo onlus: “Lo smartworking rappresenta sicuramente una risorsa importante nel mondo del lavoro, soprattutto di quello femminile. Tuttavia richiede un setting adeguato che possa essere rispettoso di requisiti fondamentali: metri quadri a disposizione, silenzio, luce, ricambio di aria tali che permettano la concentrazione innanzitutto e poi una serenità a 360 gradi. Essere caregiver a 30 o 40 anni sicuramente consente di avere una maggiore motivazione rispetto al lavoro in smart working e al lavoro in assoluto: su questo bisognerebbe attivare un’indagine sociologica. Il caregiver di un minore o di un genitore anziano vede per lo più positivamente il lavoro da casa. Diversamente, il caregiver di un giovane adulto arriva alla scelta di lasciare il lavoro dipendente o di chiedere lo smart working solo per 'disperazione', dopo anni di usura nell'assistenza al proprio caro. A nostro avviso, la scelta del lavoro da casa richiede che la persona abbia un livello di equilibrio psicologico molto elevato, che la casa abbia gli spazi opportuni e soprattutto che la persona cara da assistere non 'invada' lo spazio fisico di lavoro. Io lavoro da casa dal 2018 – continua Improta - per i progetti della onlus e quindi per gli enti locali e non ho dubbi: tornerei di corsa a fare l’impiegata in un ufficio, piuttosto che la libera professione in smartworking: mi sento sempre trascurata, molto più stanca, più sola e sicuramente meno 'smart'!”.

“Più che lavoro agile, ci sia garantito sostegno nella cura”

Questa invece è la testimonianza di una giornalista caregiver, che fa parte di Oltre lo Sguardo onlus: “Riconosco senza dubbio che lo smart working permette di vivere meglio, evitando spostamenti difficoltosi, specie in una grande città, per raggiungere il luogo di lavoro e poi rientrare, ma si sta ingenerando un grande equivoco: che questo significhi non avere uno spazio dedicato al lavoro, ma richieda di accrescere le doti di multitasking che da sempre le donne tendono ad amplificare. Ebbene, questa è la strada per arrivare all’esaurimento fisico e nervoso. Smart working non deve e non può significare fare due lavori in contemporanea, ma conciliarli meglio, dedicando a ciascuno di essi lo spazio necessario. Tuttavia, questo concetto stenta ad affermarsi, e forse non ce ne sono le condizioni. Infatti, mancano le infrastrutture sociali necessarie per l’assistenza dei disabili, specie dei giovani adulti. E così soprattutto le madri continuano a fare acrobazie per tenere insieme tutto, per svolgere al meglio il proprio lavoro e, al contempo, non far mancare nulla al proprio figlio. Il genitore di un figlio disabile ha una preferenzialità nell’attribuzione dei posti (limitati) di smart working, una sorta di diritto acquisito. Peccato che lo Stato non preveda un uguale diritto del genitore a essere sollevato dal lavoro di assistenza, mediante strutture pubbliche e private che funzionino al meglio. Nemmeno con il Pnrr sono stati stanziati i fondi necessari a consentirlo. Insomma, in aggiunta a tutti gli altri lavori che devono svolgere, i caregiver dovranno continuare ad agire come gruppi di pressione nei confronti delle istituzioni, per ricevere l’attenzione che serve”.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)