Sfruttamento e caporalato. Non più solo al Sud e in agricoltura, cresce la repressione

Dall’analisi di oltre 400 inchieste, un quadro dettagliato del fenomeno che riguarda diversi settori e non solo lavoratori stranieri. I dati del IV Rapporto del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo realizzato da “L’Altro Diritto” in sinergia con la Flai Cgil. Santoro: “Le Procure non hanno ancora imparato ad usare gli strumenti per proteggere le vittime”

Sfruttamento e caporalato. Non più solo al Sud e in agricoltura, cresce la repressione

A oltre cinque anni dall’entrata in vigore della legge 199 del 2016 contro lo sfruttamento lavorativo e il caporalato, crescono le inchieste e gli interventi delle forze dell’ordine e non riguardano solo il Sud e l’agricoltura. A tracciare un bilancio della lotta allo sfruttamento lavorativo (grazie alla riforma dell’art. 603-bis del codice penale del 2016) è il IV Rapporto del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo, istituito nel 2018 da L’Altro Diritto - Centro di Ricerca Interuniversitario, in sinergia con la Flai Cgil, presentato oggi a Roma.  Dalle oltre 400 inchieste delle Procure di tutta l’Italia monitorate emerge un’attenzione nuova verso il fenomeno dello sfruttamento da parte della giustizia italiana. “Il rapporto, infatti, non dà una linea di tendenza sul fenomeno, ma sull’attività giudiziaria di contrasto - spiega Emilio Santoro, professore di filosofia e sociologia del diritto dell’Università di Firenze e direttore del Centro Documentazione L’Altro Diritto -. Tra l’attività giudiziaria e il fenomeno c’è uno iato, quanto largo è difficile dirlo. Non sono dati che fotografano con esattezza la situazione poiché la raccolta avviene in modo volontario, ma una cosa è certa: il 603-bis, l’articolo che reprime lo sfruttamento lavorativo dopo la riforma, sta diventando uno strumento che le Procure della Repubblica usano. All’inizio erano pochissimi casi. Oggi il suo uso è consistente. È passato dalla carta del codice alla prassi delle Procure”.  Secondo il rapporto, infatti, il numero di inchieste avviate per fatti di sfruttamento lavorativo, negli ultimi due anni, “è cresciuto in maniera esponenziale”. Se l’ultimo rapporto si fondava sull’analisi di 214 inchieste, oggi sono 458 i procedimenti monitorati. Basta guardare i numeri delle inchieste per sfruttamento lavorativo individuate anno per anno per comprendere il trend: nel 2016 quelle monitorate dal Laboratorio erano soltanto 6, nel 2017 sono 25, 64 nel 2018. Poi, i dati fanno registrare un raddoppio: 121 casi nel 2019, 127 nel 2020 e 101 nel 2021, anche se i dati riferiti allo scorso anno devono ancora stabilizzarsi, in quanto potrebbero esserci inchieste in corso non ancora concluse.  Anche il numero dei procedimenti penali avviati segue lo stesso trend dei casi monitorati, mentre i numeri delle denunce da parte dei lavoratori sono ancora una minima parte. Solo negli ultimi tre anni hanno superato la decina di casi l’anno. “La crescita del numero dei procedimenti non è frutto di un numero crescente di denunce - si legge nel rapporto -: sono ancora complessivamente pochi – 49 su 458 – i casi in cui gli autori del fatto vengono individuati grazie ad una segnalazione dei lavoratori, pur inserendo tra questi le situazioni in cui i lavoratori denunciano lo sfruttamento nel corso di un’ispezione amministrativa. Anche considerando il rapporto tra il numero di denunce per anno e l’incremento dei procedimenti rilevati, non emerge alcuna progressione significativa: dal 2018 al 2021, infatti, il numero di segnalazioni oscilla tra le 5 e le 14 per anno, con una leggera flessione nel 2020. A livello nazionale solo poco più del 10% dei procedimenti è basato su denunce”. Per Santoro, infatti, le denunce “si concentrano laddove esistono programmi del privato sociale e del sindacato a tutela delle vittime di sfruttamento”, poiché ad oggi non vengono messi in campo “programmi di protezione che favoriscano l’emersione e la denuncia”. Sebbene le inchieste che riguardano lo sfruttamento in agricoltura siano ancora quelle numericamente più rilevanti (sono oltre 200 sulle 458 monitorate negli anni), lo studio evidenza una crescita di procedimenti che riguardano anche altri comparti produttivi: ci sono le attività di volantinaggio (12 inchieste, equamente distribuite tra il Centro ed il Nord Italia); i distributori di benzina o gli autolavaggi (13 procedimenti, quasi tutti nel Centro e del Nord Italia); la logistica e i trasporti (19 procedimenti, ancora una volta prevalentemente seguiti da Procure del Centro-Nord). Non manca anche il settore dell’industria, soprattutto quella manifatturiera mentre continuano ad essere lontano dai riflettori della giustizia i settori dell’edilizia (9 inchieste), del turismo (15 processi e dell’attività di cura (7 processi). “Se si cerca il caporalato e l’intermediazione - spiega Santoro - sicuramente l’agricoltura è il settore principalmente interessato. Tuttavia, se si sposta il fuoco sullo sfruttamento lavorativo, come ha fatto la riforma del 603-bis, allora l’area di interesse si allarga moltissimo coinvolgendo anche altri settori produttivi. Uno di questi in cui è evidente che c’è uno sfruttamento enorme è quello del lavoro domestico, ma è difficilissimo fare le inchieste. Entrare nelle case delle persone è praticamente impossibile. In agricoltura, invece, il fenomeno è più facile da intercettare”. I dati sulle inchieste, inoltre, mostrano un’attenzione della giustizia che non è più focalizzata soltanto verso il Sud Italia. Le inchieste che riguardano il Nord, infatti, sono sempre più numerose, anche per quanto riguarda l’agricoltura. Secondo il rapporto, infatti, la distribuzione  delle inchieste sul territorio nazionale è abbastanza omogenea: “sono 138 i procedimenti di competenza di Procure del Nord Italia, 138 quelli del Centro Italia e 182 quelli del Meridione - si legge nel rapporto -. Le proporzioni interne di questa ripartizione, però, sono cambiate nel tempo: considerando il numero di procedimenti attivati di anno in anno, inizialmente le inchieste erano prevalentemente incardinate al Sud (nel 2017, ad esempio, su 25 casi di sfruttamento, 13 riguardavano il Sud, 9 il Centro e solamente 3 le regioni del Nord). A partire dal 2019 è cresciuta in maniera consistente la cifra delle indagini nel Centro e nel Nord Italia (su 121 vicende, 51 erano relative al Meridione, mentre le restanti si ripartivano in maniera identica tra Centro e Nord Italia) e, nel 2020, le proporzioni si sono addirittura invertite, tanto che, su 127 inchieste, sono state ben 45 quelle delle Procure del Nord, a fronte di 41 vicende relative alle regioni centrali e altrettante nel Sud Italia”. I dati dello scorso anno, ancora non del tutto stabilizzati, mostrano un incremento al Sud, con 40 procedimenti, mentre al Nord e nel Centro le inchieste monitorate sono rispettivamente 31 e 30. “In generale, lo sfruttamento lavorativo è un modo per guadagnare di più per cui bisogna seguire i soldi - spiega Santoro -. Questa rappresentazione dello sfruttamento lavorativo concentrato nel Sud non tiene conto della realtà economica del paese. Dove è più intensa l’attività produttiva, si trova anche più sfruttamento”. La crescita delle inchieste negli ultimi anni, però, è dovuta in larga parte alla disponibilità del nuovo strumento normativo: il 603-bis. “Fino al 2016 era complicatissimo perseguire lo sfruttamento lavorativo con strumenti penalistici - spiega Santoro -. La riforma del 2016 ha messo in mano alle Procure un ottimo strumento. Poi, naturalmente, come tutti gli strumenti giuridici, bisogna prendere confidenza per trasformarlo in pratica e serve un po’ di tempo, ma i dati dimostrano che si sta vedendo l’utilità di questa norma. Le Procure hanno finalmente una lente che permette di vedere il fenomeno nei settori più disparati”. Uno di questi, forse il più eclatante, è quello che riguarda i riders. “Siamo passati da una discussione su problemi di diritto del lavoro a dire che c’è un reato di sfruttamento lavorativo - aggiunge Santoro -. Non siamo in agricoltura e siamo a Milano”. Per quanto riguarda le vittime, il rapporto conferma che sono per lo più stranieri. Su 391 inchieste di cui il Laboratorio è riuscito ad individuale la nazionalità delle vittime, “sono 293, il 74% dei procedimenti individuati, quelle che coinvolgono solo stranieri, a queste vanno aggiunte 26 inchieste in cui le vittime sono sia stranieri che cittadini dell’Unione Europea”, si legge nel rapporto. Il fenomeno, però, riguarda anche i cittadini italiani. “Sono 58 i procedimenti in cui, tra i lavoratori, vi è anche manodopera autoctona - si legge nel rapporto -. Anche se i numeri non sono eclatanti, l’aumento delle inchieste che contano tra le vittime cittadini italiani è sconcertante: dopo essere state pochissime unità nei primi anni, queste inchieste dal 2018 si assestano tra le 10 ele 15 l’anno”. Dal monitoraggio, tuttavia, emerge anche un altro dato allarmante: “sono ben 15 le inchieste in cui, tra le vittime, vi sono minorenni, con la precisazione che oltre la metà di questi casi si riferisce a fatti degli ultimi due anni”. A poco più di 5 anni dall’entrata in vigore della nuova legge, inoltre, arrivano anche le prime sentenze dei processi. “Un primo dato - si legge nel rapporto - è che le condanne superano nettamente le assoluzioni: sono 20 le vicende intercettate che si sono chiuse con un proscioglimento o un’archiviazione. Il dato ci sembra significativo, anche se assolutamente sottostimato dato che i provvedimenti di archiviazione sono coperti dal segreto istruttorio e quindi, molto spesso, non sono noti alla cronaca”. Per Santoro, i dati dimostrano che “le Procure stanno imparando a maneggiare lo strumento. Noi abbiamo tantissimi articoli nel codice penale non utilizzati o utilizzati una volta l’anno, come il 603-bis prima della riforma, quando puniva solo l’intermediario. In quel caso avevamo solo 10 inchieste l’anno. I dati dimostrano che la cosa è cambiata, lo strumento funziona. Il problema, però, è che le Procure non hanno ancora imparato ad usare gli strumenti per proteggere le vittime”.Gianni Augello

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)