Ero incatenato... Caritas Antoniana sostiene l'impegno di Gregoire Ahongbonon

Gregoire Ahongbonon, un laico, sposato con 6 figli, da oltre 35 anni gira fra Costa D’Avorio, Togo e Benin a raccogliere i malati mentali per portarli in uno dei Centri di Accoglienza che egli stesso ha fondato. Il progetto Caritas Antoniana 2019 che verrà presentato in occasione del concerto di Simone Cristicchi, il 28 giugno, è legato alla sua attività. È chiamato il Basaglia d’Africa, l’uomo delle catene. In Africa hanno paura della malattia mentale, per curarla si affidano a “guaritori” che infliggono pene durissime affinché il maligno esca dal corpo e possano espiare la loro colpa, che è solo quella di essere fragili, i più deboli fra i deboli. Giovani, donne, bambini, anziani incatenati per anni. Gregoire li libera materialmente dalle catene, li lava, li veste, li porta nel suo centro e qui pian piano riacquistano dignità. Il passo successivo è acquisire delle competenze per tornare a casa, inserirsi in una vita sociale. Il Progetto della Caritas Antoniana riguarda proprio la costruzione di un Centro di formazione professionale.

Ero incatenato... Caritas Antoniana sostiene l'impegno di Gregoire Ahongbonon

«Dimenticare se stessi per incontrare l’altro. La vera gioia è dimenticare se stessi per occuparsi dei poveri e dei deboli». Gregoire Ahongbonon, laico sposato con 6 figli, da oltre 35 anni gira fra Costa D’Avorio, Togo e Benin a raccogliere i malati mentali per portarli in uno dei centri di accoglienza che egli stesso ha fondato. Con queste parole incisive sintetizza il significato del tema del Giugno antoniano.

Il progetto Caritas Antoniana 2019 è legato alla sua attività. È chiamato il Basaglia d’Africa, l’uomo delle catene. Il suo linguaggio è molto semplice, non ha studiato, ma le sue parole sono intense, toccano, lasciano il segno. Era gommista, gli affari andavano bene, a 23 anni era uno dei pochi giovani ad avere un’auto e gestiva 4 taxi. Poi all’improvviso ha perso tutto.

«Abitavo in Costa d’Avorio – dice – dove mi ero trasferito dal Benin nel 1971. Amavo molto Dio, il mio unico faro per orientarmi. Giunto in Costa d’Avorio, davanti alla ricchezza, ho abbandonato Dio e il denaro è diventato il mio unico punto di riferimento. Ho perso tutto, anche gli amici, ho pensato perfino al suicidio. Ho cominciato a condurre una vita di miseria. Ero come i malati che cerco di salvare. Da noi ci sono molte sette che attirano persone per fare fortuna, ma io sono stato battezzato e per me la religione non si cambia come una camicia. Questa sofferenza mi ha permesso di trovare la via della fede. Dio è venuto a salvarmi in un buco, quando non sapevo più dove ero».

L’incontro con Gesù, grazie a un viaggio in Terra Santa, gli ha cambiato la vita. Da quel giorno ha deciso di non “girarsi più dall’altra parte”. «Ogni cristiano deve partecipare alla costruzione della Chiesa con la propria pietra – afferma Gregoire – Qual era la mia pietra? Questa frase mi ha sconvolto!». Con la moglie e altri volontari va negli ospedali per portare una preghiera, un conforto. Lì incontrano malati abbandonati a se stessi, nella sporcizia. In Africa se non hai soldi e sei malato, non c’è cura per te, nessuno si occupa di te e resti lì fino alla morte. «Davanti a questi malati – racconta Gregoire – ci siamo detti che prima di pregare dovevamo manifestare la nostra amicizia lavandoli o trovando del denaro per le cure. Almeno davamo loro una morte dignitosa».

Inizia così la sua peregrinatio personale alla ricerca dei malati mentali, abbandonati per strada, nudi, ridotti a mangiare dalla spazzatura, rifiuti umani spesso incatenati alle caviglie, polsi, collo a un tronco di albero, un ceppo di cemento, un muro. In Africa hanno paura della malattia mentale, per curarla si affidano a “guaritori” che infliggono pene durissime affinché il maligno esca dal corpo e i malati possano espiare la loro "colpa", che è solo quella di essere fragili, i più deboli fra i deboli. Giovani, donne, bambini, anziani incatenati per anni, due, tre ma anche sette o dieci, sotto il sole e la pioggia. In un “campo di preghiera” 205 persone erano incatenate.

«Ho conosciuto una donna – dice Gregoire – incatenata da 35 anni. Quando l’ho liberata il suo corpo era rattrappito. Un giovane invece aveva la carne talmente marcia che le catene erano diventate parte del corpo. L’ho liberato, lavato, pulito, vestito, mi ha chiesto “Potrò ancora vivere?”, nonostante tutto aveva il desiderio di vivere, ma purtroppo dopo pochi giorni è morto».

Ora, tramite l’associazione San Camillo, fondata da Gregoire, in Costa d’Avorio ci sono 4 centri di accoglienza e 6 laboratori, in Benin 4 più uno in costruzione e 3 laboratori. «Ciascuno di noi – continua – deve cambiare il proprio modo di guardare il malato. La paura che noi abbiamo è ciò che li fa soffrire. Dobbiamo cambiare il nostro sguardo. Quando vedo un uomo incatenato vedo me stesso. Se vedo una donna, vedo mia madre. Non dimenticarli, questo è il nostro compito, il nostro dovere. È Gesù che continua il suo cammino sul Golgota e aspetta tutti noi. Non abbiamo il diritto di incrociare le braccia. Io non sono un medico, né un prete o un guaritore, sono un padre di famiglia, un gommista, ma se sono qui è perché ho voluto cercare Dio nei poveri. Un giorno Dio chiederà: che cosa hai fatto per il tuo fratello?». Gregoire riprende le parole del vangelo di Matteo: «Perché avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete vestito. Potrei aggiungere, ero incatenato e solo in  strada e siete venuti ad aiutarmi».

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