Davide ha la sindrome di down. Ed è campione del mondo di calcio a 5

Michele Vignando, allenatore da oltre 20 anni per "hobby", nel 2011 ha creato una squadra di calcio a 5 per far giocare suo figlio down, laureatosi campione del mondo nell'aprile 2017. Crede nei valori sani come disciplina e autonomia, essenziali per questi ragazzi. Ma si chiede: «Perché i genitori li allontanano dallo sport?».

Davide ha la sindrome di down. Ed è campione del mondo di calcio a 5

«Dai Davide, allacciati la scarpa».

Davide Vignando ha 20 anni e nell’aprile 2017, con la maglia della Nazionale di calcio a cinque con la sindrome di down, ha vinto il Mondiale battendo il Portogallo per 4-1. Si allena assieme alla sua squadra, lo Special team Padova, in un centro sportivo nel quartiere Arcella, ma nonostante la medaglia d’oro che porta al collo il padre Michele è lì che osserva l’allenamento scrupolosamente e lo ammonisce per il laccio fuori posto. Michele, però, non è un padre esageratamente protettivo e lo si capisce ascoltando il suo racconto. Lui, che nel novembre 2011 ha pensato di metter su questa squadra assieme al presidente Massimo Barzon, ricopre il ruolo di direttore sportivo. Il team fa parte della Sport21 Veneto, onlus che si occupa di attività sportiva per atleti con disabilità intellettiva e relazionale.

La squadra negli anni passati è riuscita ad avere anche 18 atleti, ora sono in 11 perché alcuni genitori hanno preferito inserire i propri figli all’interno di altri percorsi non direttamente legati ad attività sportive. Un piccolo rammarico per Michele che, in realtà, vorrebbe allargare ancora di più lo spettro delle proposte inserendo il volley o il nuoto.

«Non è facile far capire ai genitori l’importanza sociale e umana che ha lo sport, non per l’ambizione di diventare chissà chi, ma per la metodologia, l’impegno e il sacrificio che richiede ogni giorno. Soprattutto per la fiducia e l’autonomia che sviluppa, indispensabili per questi ragazzi: in passato c’erano mamme che volevano essere presenti nello spogliatoio per aiutare i figli nella doccia o vestirli, ma sin da subito non lo abbiamo permesso perché a 20 anni si è uomini, non bambini».

Michele non ha la scorza dura, il suo non è uno sproloquio cameratesco, ma sa quanto sia importante trasmettere disciplina per veicolare tutti quegli stimoli fondamentali perché questi ragazzi possano costruirsi una vita indipendente. Preparare il borsone, scendere alla fermata del tram e andare all’allenamento, avere cura degli effetti personali sono conquiste giornaliere. Il tutto senza dimenticare che ci sono partite da giocare e che la condizione fisica è indispensabile: l’allenatore Elio Russo ha sposato sin da subito il progetto, è uno che ci tiene all’aspetto tecnico, vede dinanzi a sé atleti, solo atleti. Ha creato un gruppo sano, punta sulla qualità dei passaggi e sulla velocità per tener testa ad avversari che sono fisicamente più robusti.

Ma queste occasioni sono essenziali per un’altra ragione. Nei tornei Special olympics è possibile disputare partite “miste”: all’interno di squadre con disabilità può giocare un normodotato, definito partner e che nello Special team è Giulia Lacher, il cui ruolo è quello di aiutare i ragazzi a sviluppare le azioni senza però poter segnare o giocare in porta. Uno stimolo in più, secondo Michele, per spingere i suoi calciatori a migliorare le proprie capacità relazionali. Lui, ostinatamente, non riesce a scindere lo sport dalla vita: da ragazzino percorreva dieci chilometri in bici, tra andata e ritorno, per seguire gli allenamenti, ora sono tre anni che Davide prende da solo la bicicletta per andare da Perarolo, dove vivono, a Stra a lezione di nuoto.

È fiero di Davide, lo si vede nei suoi occhi e nello spirito con cui si anima per promuovere eventi, ma è anche orgoglioso del rapporto di fiducia che si è creato tra genitori e figlio:

«Compassione e paura che si possano far male ce li creiamo noi, noi siamo i limiti per loro. Io e mia moglie abbiamo portato Davide in piscina quando non riusciva a camminare, oggi la sua soddisfazione è tagliare l’erba e rinfacciarmi che io non lo faccio mai. Oppure non vede l’ora che arrivi sera perché mi viene a trovare dove lavoro e assieme ritorniamo a casa in bici. E io non potrei mai impedire tutto questo».

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