Corpus Domini *Domenica 14 giugno 2020

Giovanni 6, 51-58

Dal vangelo secondo Giovanni  

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Ricevere la comunione non è un premio

«Noi non sappiamo come far morire gli uomini» disse l’anziana signora sorridendomi dietro gli occhiali da sole.
«A sì, e come si fa?» chiesi incuriosito.
«È molto facile: basta dar loro da mangiare quello che vogliono». Ecco.
Ho citato più volte la simpatia di questa risposta che un’anziana signora mi confidò bonariamente durante una primaverile gita parrocchiale. «Basta dar loro da mangiare quello che vogliono».  
Di età in età i desideri che spuntano nelle pieghe dell’anima ci tengono vivi e operosi, ci spingono a muoverci, a guardar lontano e attorno e dentro. Sono un dono che serve a non spegnerci nella pigrizia e nella ripetizione. Sono fame di vita: se li custodiamo e se ce ne prendiamo cura, la vita acquisisce sapore e diventa un po’ più appagante.
Ogni desiderio è una voce del Cielo, un dono di Dio, una possibilità di trovare vita. L’esperienza però rivela che le risposte messe in atto per prenderci cura dei desideri spesso sono superficiali, sbrigative, poco autentiche, confuse, per niente nutritive.
Per usare ancora la frase dell’anziana signora, di fronte al bisogno di vita che i desideri suscitano in noi, spesso torniamo a mangiare non ciò che nutre, ma quello che vogliamo, quello che ci piace e che purtroppo fa aumentare l’insoddisfazione del vivere.
Credo sia importante imparare a scegliere un tempo per fermarsi e domandarsi, concretamente, quali sono i desideri che dimorano in noi.
Suggerisco a proposito un piccolo esercizio: chi legge queste righe prenda carta e penna e risponda, proprio concretamente per scritto, alle domande che seguono. Bastano pochi minuti.
Ce cosa desidero adesso?
Questi desideri che provo in me, che bisogno di vita esprimono?
Guardo alla mia esperienza e mi chiedo il modo con cui ho risposto ai bisogni che i desideri hanno suscitato in me, mi hanno fatto bene? Mi hanno fatto diventare più forte, più autentico, più felice?

Ci sono modi di rispondere ai desideri e ai bisogni del cuore che avvelenano la vita, ce ne sono altri che le danno colore e sapore. Ci sono modi, ripetitivi e identici a se stessi, che si travestono 
da novità e verità, ma una volta attuati fanno aumentare quella sensazione di essersi perduti, togliendo la voglia di vivere.

Nel Vangelo di oggi, Gesù dice «colui che mangia me vivrà per me». Mi viene in mente una frase che viene attribuita ad Ippocrate, il famoso medico dell’antichità: «Fa’ che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo». Oltre a domandarsi quali siano i desideri più profondi che troviamo in noi, è importante anche chiedersi come stiamo nutrendo ciò che ha il potere di tenerci vivi, di farci guardare oltre quel che si vede, di aiutarci a pensare con serenità e lungimiranza, di scegliere ciò che non fa perdere la strada e fa fare un passo in avanti, consentendoci di non diventare cinici, rassegnati e incattiviti.
«Colui che mangia me vivrà per me»: uno diventa quello che mangia.
Se non nutro il mio stare nella vita, il pensare e lo scegliere, il comprendere e il giudicare, il bisogno di sentirsi amati e di amare, l’ascoltare e il dire, il guardare e il toccare, il prendersi cura e il custodire… 
Se non nutro tutto questo di quel che Dio è, pian piano, nutrita solo di “quel che piace” o che va per la maggiore, di superficialità e banalità e frettolosità, la vita si troverà vuota, ansiosa, chiusa in un labirinto senza uscita.

Oggi ci è dato il dono di vivere la festa del Corpo e Sangue del Signore, di contemplare con consapevolezza e gratitudine la sua presenza in mezzo a noi nel segno dell’eucaristia. Quest’anno non si potranno vivere in maniera comunitaria le varie manifestazioni di devozione all’eucaristia, ma ciò non toglie che si possa comunque celebrare con solennità la festa. E per solennità non intendo la lunghezza della celebrazione, l’osservanza perfetta nell’esecuzione della stessa, l’aumentato numero di candele, i canti latini, l’elegante coreografia della processione, i particolari e raffinati paramenti dei preti… Sì, sì: possono essere cose belle, ma non bastano, o per lo meno non bastano più.
A mio parere la vera solennità della celebrazione coincide in tutto ciò che aiuta l’incontro tra l’umano e il divino, tra noi e Dio, tra quel che noi viviamo e la Vita che è Dio. La vera solennità sta in tutto ciò che aiuta ad aprire gli occhi del cuore, a conoscere meglio la vita, a guardare con consapevolezza e compassione quel che c’è per portarlo davanti a Dio, con gratitudine, desiderio di salvezza e spirito di familiarità, perché ancora lui compia ciò che ha promesso: «Io vivo e voi vivrete» (Gv 14,19).  

In questi tempi di pandemia non ci è stato possibile celebrare comunitariamente l’eucaristia e anche in queste domeniche le celebrazioni rimangono comunque monche, poco comunitarie, poco fisiche… ma, per ora, va bene così. Da più parti è stata invocata la ripresa delle celebrazioni: bene! Ma, se posso dirlo, forse sarebbe da invocare anche un modo diverso di celebrare. Non intendo dire che i riti vadano cambiati, no, ma mi domando quante delle nostre celebrazioni, delle nostre preghiere, delle nostre parole, anche solo del nostro modo di partecipare aiuti le persone ad incontrarsi con Dio.
Per essere ancora più concreto mi domando: le persone che partecipano all’eucaristia della domenica nelle nostre comunità, quelle che vengono a messa, che cosa portano a casa? I desideri del cuore, il vissuto quotidiano trovano un aiuto per farsi più veri e ricevono nutrimento per percorrere la via del bene?
Concludo con una battuta che nasce da una constatazione: la vita dei credenti ha (e sempre avrà) abbondanti e diffuse testimonianze di incoerenza… «Proprio quelli che vanno in chiesa e che fanno la comunione, sono quelli poi che si comportano peggio degli altri… anche i preti!». Quante volte ho sentito questa frase. È vero.  Anch’io ogni tanto dico a me stesso: «Massimo, ma quanti anni sono che fai la comunione? E sei ancora così?». E poi mi rispondo: «Pensa come sarei messo se non l’avessi fatta!».
«Colui che mangia me vivrà per me»: ricevere la comunione non è un premio, ma la risposta a un bisogno. Non è un traguardo, ma è ciò che è necessario perché la vita non muoia.
Signore, grazie per la tua presenza.
Aiutaci a stare in comunione con te,
così che la vita non sia sprecata,
così che guardiamo la vita,
le persone, questo tempo
come tu guardi,
così che viviamo
come tu hai vissuto e vivi:
portando vita. 

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