Se non un Renzi-bis, un governo nel solco della continuità

Nel solco della continuità. È questa la sfumatura evidente che sembra assumere il 64° governo della storia repubblicana, nato lunedì 12 dicembre. Con Renzi Gentiloni ha in comune la militanza nella ex Margherita e un impegno politico che lo ha visto tra i suoi sostenitori fin dall'inizio della “scalata” al Pd.

Se non un Renzi-bis, un governo nel solco della continuità

Nel solco della continuità. È questa la sfumatura evidente che sembra assumere il 64° governo della storia repubblicana, nato lunedì 12 dicembre: il governo Gentiloni. Sgranato il rosario dei potenziali ministri, alla fine si segnalano cinque nuovi ingressi rispetto al governo Renzi, portando a un aumento di tre unità della compagine ministeriale, con la fuoriuscita di Elena Boschi (passata, però, nello staff della Presidenza del consiglio come sottosegretario) e di Stefania Giannini. Da ministro degli esteri (dove è stato sostituito da Angelino Alfano), Paolo Gentiloni ha preso il testimone di Matteo Renzi, da lui stesso indicato come successore, come pure dai notabili del Partito democratico. I due hanno in comune la militanza nella ex-Margherita, poi confluita nel Pd, accanto a Francesco Rutelli. Nel 2012, quando l’allora sindaco di Firenze si candidò da outsider contro Bersani, Gentiloni, già ministro delle comunicazioni nel governo Prodi, deputato dal 2001, fu uno dei pochi parlamentari a schierarsi al suo fianco, insieme agli amici Giachetti e Realacci.

La crisi di governo è arrivata dunque a una rapida soluzione, grazie all’equilibrio e alla rapidità del presidente della repubblica Mattarella, con un governo orientato alla risoluzione di alcuni precisi nodi. Una crisi che si è inserita in un balletto di momenti scanditi da date con non poche coincidenze.

8 dicembre 2013: con una percentuale del 68 per cento, Matteo Renzi vinse le primarie del Partito democratico, incoronato da una massiccia affluenza di cittadini recatisi alle urne per la scelta del nuovo segretario. Da quel momento era partita la sua scalata verso la Presidenza del consiglio con una lunga stagione a palazzo Chigi, segnata da nuove parole d’ordine e da nuove riforme in cantiere.

8 dicembre 2016: a distanza di tre anni hanno avuto inizio le consultazioni del presidente della repubblica per cercare una via d’uscita a seguito delle dimissioni di Renzi, dopo il risultato del referendum costituzionale di domenica 4 dicembre che ha sancito la vittoria del “no” alla riforma. E dopo l’approvazione, in seconda lettura, della manovra di bilancio, una sorta di scudo per tenere l’economia al riparo da speculazioni sui mercati, comunque sempre dietro l’angolo. Con un paese, l’Italia, rimasto con il fiato sospeso per mesi, durante una lunga ed estenuante campagna referendaria, più simile a una competizione elettorale per il governo del paese.

La partita è poi tutta passata nelle mani di Mattarella, in un delicato gioco tra tecnicismi costituzionali, incontri, trattative e mediazioni dai quali estrarre l’asso per fronteggiare diverse emergenze e per allontanare la politica dallo sterile scontro tra partiti. Un punto fermo è rappresentato dalla chiara volontà della presidenza della repubblica, condivisa dal nuovo premier, di garantire un’azione di governo che possa spingere le diverse forze politiche ad approvare una legge elettorale. Del resto, con l’Italicum alla Camera e il Consultellum al Senato (in sostanza due diverse leggi elettorali nei due rami del parlamento) sarebbe inutile votare, con il rischio di creare un vero e proprio pasticcio che frenerebbe la formazione di qualsiasi governo. Da qui l’idea di un’armonizzazione tra le due camere.

Ma è proprio a questo punto che entra in gioco la seconda variabile: quale decisione assumerà la Corte costituzionale?

Vale la pena ricordare che la Corte esaminerà la legittimità dell’Italicum, dopo essere stata chiamata in causa dai tribunali di Messina, Torino e Perugia, solo il 24 gennaio del prossimo anno. Uno slittamento dalla prima data fissata per lo scorso 4 ottobre per evitare interferenze prima del referendum costituzionale. In questa intricata e frenetica fase emerge anche il ruolo del Partito democratico, forza parlamentare che detiene la maggioranza relativa dei voti e che non può non giocare un ruolo da primario attore.

Indubbiamente il Pd non vuole ripetere l'esperienza del sostegno al governo Monti, che gli costò un’emorragia di voti, oltre all’accusa di aver appoggiato un esecutivo che non era espressione (seppur indiretta) della volontà popolare. Magari raccogliendo altre forze per puntellare una maggioranza parlamentare. Da qui l’idea di non aprire le porte a un governo che si spinga troppo in avanti con il tempo. Una scelta, quest’ultima, che deve convivere anche con la decisione di anticipare, ad inizio anno, il congresso del Pd.

Tra le mani di Gentiloni rimangono, infine, anche altri delicati dossier: l’economia reale del paese, con fragili fondamentali accompagnati da un’asfittica ripresa.

Un arrancare accentuato dal peso del debito pubblico. Uno sguardo vigile è poi rivolto agli istituti di credito, in primis il Monte dei Paschi, dopo la decisione della Banca centrale europea di respingere la richiesta di prorogare i termini per l’operazione di ricapitalizzazione sul mercato, avanzata dall’istituto senese dopo la caduta del governo. Senza, poi, dimenticare lo sblocco dei provvedimenti sociali urgenti a favore dei terremotati e delle fasce più povere, insabbiati da mesi di campagna elettorale. Il tutto da giocarsi con il muro, già dichiarato, che ergerà l’opposizione parlamentare indirizzata ad andare a votare il prima possibile, anche per capitalizzare la vittoria del “no” al referendum.

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