La memoria corta del Nordest

Toccare il tema delle migrazioni, con l'occhio di chi vive e lavora in Veneto, significa imbattersi in una selva di simboli e ricordi, problemi aperti e contraddizioni rese più acute dal progressivo appannarsi sotto i colpi della crisi del cosiddetto “miracolo del Nordest”.

La memoria corta del Nordest

La terra in cui muoveva i suoi primi passi da sacerdote il futuro pontefice Pio X era poverissima e tradizionalmente vocata all'emigrazione. Cento anni fa si partiva dalle montagne bellunesi come dal litorale veneziano, e spesso a farlo erano interi paesi con in testa i loro parroci e – non raramente – le statue dei santi. Ancora negli anni Sessanta, i vescovi incontravano e davano la loro benedizione a centinaia di operai diretti in Germania e ad altrettante mondine in partenza per le risaie del Piemonte e della Lombardia.
Poi, vent'anni fa, è iniziata la nuova emigrazione degli imprenditori, quella che portava Confindustria veneta a celebrare la sua assise annuale a Timosoara, Romania, ribattezzata “ottava provincia della regione” in un sussulto d'orgoglio coloniale di cui s'è persa traccia non appena la delocalizzazione ha presentato il suo (salato) conto alle nostre comunità, in termini di aziende chiuse e posti di lavoro svaniti.
Parallelamente, il Veneto più di tante altre regioni ha visto crescere le fila dell'immigrazione. Oggi quasi mezzo milione di residenti sono stranieri, e anche se più degli italiani stanno pagando il prezzo della crisi sono ormai a pieno titolo parte della società: lo dimostrano l'aumento del numero di ricongiungimenti familiari, i quasi centomila alunni stranieri che frequentano le nostre scuole, la progressiva crescita delle acquisizioni di cittadinanza. E, forse più di ogni altra cosa, lo certifica il veloce cambiamento dei loro stili di vita, sempre più simili a quelli dei loro vicini di casa: se nel 2012 il saldo demografico in regione è stato per la prima volta passivo (65 mila nati rispetto a 70 mila morti), è anche perché le nascite tra i residenti stranieri sono in veloce calo e non bastano più a compensare la nostra disabitudine a fare figli.
Il passaggio dai “giovani maschi lavoratori” alle “famiglie stabili” che, non senza contraddizioni e sacche di illegalità, si è comunque andato consolidando nella gran parte delle nostre comunità, non è però stato ancora accompagnato da un coerente impianto legislativo a tutti i livelli. Non è solo questione di cittadinanza ai minori (lo “Ius soli” ripetutamente richiesto anche dai vescovi triveneti), o di riforma della legge Bossi-Fini. La quotidianità si gioca prima di ogni cosa sull'efficacia di una rete di servizi socio-sanitari, politiche per la casa, impegno educativo, coinvolgimento nella vita amministrativa delle città che in buona parte manca o che – laddove presente – rischia di confinare perennemente gli stranieri nell'alveo delle “emergenze” e dei “mondi a parte”, anche oggi che rappresentano il 10 per cento dell'intera popolazione.
Eppure, per una sorta di nemesi storica, il centenario della Giornata del migrante e del rifugiato vede il Veneto – per la prima volta da lungo tempo – confrontarsi amaramente con un altro dato, di segno totalmente opposto. Sempre più spesso nelle nostre città importanti agenzie di selezione organizzano colloqui per individuare i giovani professionisti richiesti dalle aziende tedesche. Nel 2012 si calcola che siano emigrate 6.500 persone: ancora poche, in termini assoluti, ma sono la spia di un disagio che si va radicando e approfondendo mese dopo mese.
Non sono solo i famosi “cervelli” a fuggire dalle nostre università dopo anni di umiliante gavetta. C'è un'intera generazione che è cresciuta senza le frontiere (geografiche e mentali) del passato, e che dovendo decidere del proprio futuro mette sul piatto della bilancia molti aspetti: il posto di lavoro, certamente, ma anche la qualità delle relazioni, la ricchezza dell'offerta culturale e formativa, la vivibilità dei centri urbani in termini di aree verdi, trasporti, tempo libero, vivacità sociale. Capita così che si accetti il posto da ingegnere in Germania che a casa propria non si trova, e non c'è da stupirsene. Ma anche che si accetti volentieri a Barcellona quel posto da cameriere che a casa propria non si prende in considerazione. E nemmeno di questo dovremmo in fondo stupirci, semmai potrebbe aiutarci a riflettere sulle ragioni per cui l'Italia va malinconicamente perdendo, assieme a tante preziose energie, le grandi sfide che la globalizzazione oggi ci propone.

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