Aiutiamoci a sperare. Quando a parlare di speranza era p. David Maria Turoldo
Un tema, quello del mistero del male, attorno al quale p. Turoldo ha meditato in particolare negli ultimi tre anni della sua vita, da quando si è ritrovato a tu per tu con la sofferenza

“Perché altro è parlare da esterno, e dire ‘eh sì, soffri, sopporta, coraggio, vedrai, ecc. Tutte parole di speranza che sono certamente il balsamo dell’uomo. Tuttavia, quando si è dentro, quando si è nel centro della sofferenza, cari miei, bisogna far silenzio e basta. Far silenzio e tacere”.
A parlare è p. David Maria Turoldo (1916-1992). Uno stralcio della sua ultima intervista , concessa a Raiuno pochi giorni prima della sua morte, è stato riproposto in questi giorni sull’account Ig della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, che sostiene e promuove il progetto dell’Orchestra del mare, formata dagli strumenti realizzati nelle liuterie di alcune carceri italiane con il legno dei barconi con cui i migranti giungono a Lampedusa (v. “Appunti social” 23 settembre 2024). Il “poeta di Dio” è nella sua stanza, seduto in poltrona, sorretto da alcuni cuscini. Il corpo smagrito, il respiro faticoso, la flebo nel braccio, visibilmente stremato dalla malattia, ma sempre animato dal vigore e dalla carica umana che lo hanno sempre contraddistinto. Tre anni prima, quando gli era stato diagnosticato un tumore al pancreas, da un punto di vista medico, non c’era nessuna speranza. Gli avevano dato non più di sei mesi. Di anni, da quella diagnosi, ne erano trascorsi tre, come tre erano stati gli interventi a cui si era sottoposto.
“Qual è la risposta di Dio al dolore dell’uomo?”, si chiedeva in quell’ultima intervista il teologo, filosofo e poeta, entrato nell’Ordine dei frati Servi di Maria a soli 13 anni. “La risposta di Dio al dolore dell’uomo è Gesù Cristo. È solo Gesù Cristo la risposta di Dio. Il resto è silenzio. Assoluto silenzio. Tanto che Montale ha tentato di cantare perfino la divina indifferenza. Non si può assolutamente pensare che Dio sia indifferente. Dio è rispettoso della sua creazione. E la risposta di Cristo è l’unica risposta di Dio, che viene a fare che cosa? A condividere il dolore. Io ho una poesia che dice: ‘Tu cosa sei venuto a fare? Ciò che ti mancava era il pianto. Sei venuto a condividere il pianto dell’uomo. Sei venuto a partecipare, ad essere vicino’. Questo è il modo. Perciò Cristo è l’immagine di Dio, perché è l’immagine dell’amore che partecipa alla condizione umana in tutta la sua totalità”.
Un tema, quello del mistero del male, attorno al quale p. Turoldo ha meditato in particolare negli ultimi tre anni della sua vita, da quando si è ritrovato a tu per tu con la sofferenza e a cui aveva dedicato la predica tenuta il 15 settembre 1991 nel priorato Sant’Egidio in Fontanella (Sotto il Monte, Bergamo) dove viveva dal 1964 e dove aveva dato vita ad una comunità religiosa allargata alla partecipazione dei laici. “Che senso ha la venuta di Cristo?” si chiedeva p. Turoldo. “Se è figlio di Dio come noi crediamo, se cioè è la parola di Dio che prende carne in lui e diventa storia e visibilità, se è l’unico segno visibile di Dio sulla terra – perché Dio non lo vede nessuno, nessuno ha mai visto Dio, nessun re, nessun principe, nessun Papa – egli che era nel seno del Padre, se Cristo è questo qui, che cosa è venuto a fare? È venuto a piangere, è venuto a condividere la condizione umana! È difatti l’uomo dei dolori. Ed è quello che riassume tutte quante le sofferenze. È venuto ed è l’unica risposta di Dio, l’unica risposta che rompe questo silenzio infinito di Dio, questo Dio taciturno, Dio degli astri e delle stelle. Ma chi è questo Dio? L’unica risposta a rompere questo silenzio infinito è Cristo, e Cristo lo vediamo sulla croce. È venuto a piangere e a condividere, e questo è il Dio in cui bisogna credere. Certo che resta il mistero del dolore e della sofferenza, come il mistero del male. In una poesia canto e dico: Dio, non sei tu l’abisso, l’abisso è il mistero del male”.
“C’è la sofferenza fisica, ed è grande – spiegava, riferendosi al tumore che gli stava rubando giorni ed energie –. Dicevo che sono tre anni che medito su queste cose, da quando mi è capitato quello che mi è capitato, e sono venuto a queste conclusioni. Conclusioni? È una parola inadatta, dovrebbe essere una parola proibita, perché non c’è mai nessuna cosa che si conclude e ogni risposta a sua volta diventa una nuova domanda”.
“Si può arrivare ad accettare anche il male – il male fisico, si capisce –, ma non si può accettare il dolore. Il dolore è disumano, e tuttavia, se voi volete una società indolore è la cosa più pericolosa che potete immaginare, perché diventa indifferente, cinica, apatica, diventa egoista. Diventa anzi frantumazione di società, perché non si comunica più e ognuno pensa per sé. È il dolore che ci accomuna. Sono due gli elementi che non si possono vivere da soli: la gioia che chiede sempre di essere comunicata e il dolore che chiede sempre di essere condiviso. Perché è nella comunicazione della gioia che allora tu godi, realmente godi, hai bisogno di diffonderti e di vedere, e di vedere sereni i fratelli. Epperò non c’è dolore che non richieda aiuto”.
Parole, quelle di p. Turoldo, che lette a 33 anni dalla sua morte, risultano quanto mai attuali. Come quelle pronunciate nell’omelia della notte di Natale del 1991 a Sant’Egidio di Fontanella. “La nostra è una religione della speranza, della fiducia nonostante tutto – ricordava –. E vorrei che fosse così per tutta questa umanità così travagliata. Pensate: abbiamo accanimento di guerre alle porte del nostro stesso paese, abbiamo uomini che si massacrano su tutta quanta la terra, abbiamo delitti, crimini, mafie che esplodono da tutta la terra, eppure Dio non abbandona la terra! La terra come paese di Dio!”.
E il tema della speranza – a cui è dedicato questo anno giubilare – ritorna anche nell’intervista che, ripubblicata in questi giorni su Ig, cattura il nostro sguardo verso un orizzonte altro rispetto a quello che tratteggiano i drammi del nostro presente.
“Sono convinto che sperare è molto più difficile che credere. Per credere… tutti credono in qualcuno, in qualcosa, in qualche modo, ma per sperare cari miei…”.
“Tutto il libro di Giobbe – sottolineava guardando fisso nella telecamera, quasi a cercare di stabilire un contatto occhi negli occhi con lo spettatore che l’avrebbe ascoltato a chilometri di distanza, dall’altra parte del tubo catodico, seduto in poltrona o sul divano di casa – è incentrato sulla speranza e la disperazione. Anzi, la disperazione come categoria della ragione, proprio come ultima direi, ultimo approdo della ragione”.
“Dobbiamo quindi aiutarci a sperare che, come dicevo, è la cosa più difficile, soprattutto in questo momento, in queste circostanze, nonostante tutto”.
“Sarei felicissimo se potessi essere d’aiuto a qualche compagno, a qualche amico, qualche fratello che in questo momento è tentato di disperare”, aggiungeva p. Turoldo, lasciando al silenzio il compito di accompagnare il tempo che gli serviva per riprendere quel fiato che la malattia gli stava portando via.
Aveva da poco festeggiato il Natale e salutato l’arrivo di un nuovo anno. La liturgia ripercorreva i primi passi di Gesù, ma p. Turoldo avvertiva che era giunto per lui il momento di accompagnare Gesù in quelli che erano stati i suoi ultimi passi terreni. E così la mente e le parole vanno alla Settimana Santa, mentre la voce si fa più intima e fraterna.
“Vedete – prosegue – ho detto anche un Venerdì Santo che ogni giorno è un giorno nuovo, ogni giorno è un giorno mai vissuto sulla terra da nessuno. Nessuno sa cosa ci riserva il giorno, non sappiamo neanche cosa penseremo questa sera”.
“Pertanto, invito sempre a tenere aperta anche questa finestra sull’imprevisto e sull’imprevedibile, che potrebbe essere più positivo di quanto crediamo. Anche per il più disperato, perciò, vorrei essere d’aiuto in questo momento in modo particolare per dire: aiutiamoci a sperare”.