Salmo 139. Non esiste parente, amico, maestro o terapista che possa essere più empatico di Dio

L’immagine che affiora dalle parole del salmo è quella di un Dio che è padre e insieme madre e che è così onnipotente nel suo amore da intuire dove sia ogni suo figlio e cosa faccia.

Salmo 139. Non esiste parente, amico, maestro o terapista che possa essere più empatico di Dio

Dopo preziosi giorni di vacanza, sto per salutare mia moglie e i quattro figli adolescenti e a questi anche se fosse l’ultimo regalo che potessi loro fare, donerei volentieri il Salmo 139. Un saggio monaco, conosciuto tanti anni fa, lo ha definito “il salmo dell’amore implacabile di Dio”: una preghiera talmente bella che è davvero difficile non inquinarne la purezza con qualunque parola in più. Si potrebbe commentarne la forma, studiarne i termini, alcuni molto particolari, oppure – come spesso abbiamo fatto – leggerla in chiave cristologica, secondo quanto fa la Chiesa con molti testi del Salterio. A mio avviso, però, la dimensione che più merita questo testo è quella di accostarsi ad esso quasi in contemplazione: sussurrandolo, cantandolo, anche gridando, se il caso, ma spogliandosi di ogni altro pensiero e mettendosi a nudo, nel dialogo profondo fra il proprio spirito e lo spirito di Dio. “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile” (vv. 1-6). Che rarefazione e intensità in questo colloquio fra il cuore della creatura e il suo Creatore! L’umanità – anche attraverso la rappresentazione iconografica – ha quasi manifestato devozione, ma anche una sorta di rassegnazione, se non di insofferenza, nei confronti di un Dio indagatore, come se si fosse pentito di aver realizzato creature libere e fallaci e sempre in procinto di coglierle in errore, per punirle. Quanto può essere ingombrante l’onniscienza divina, in specie per un adolescente, per natura insofferente nei confronti di un’autorità che paia controllarlo e non lasciarlo andare. L’immagine, invece, che affiora dalle parole del salmo è quella di un Dio che è padre e direi insieme madre e che è così onnipotente nel suo amore da intuire dove sia ogni suo figlio e cosa faccia e addirittura cosa pensi e cosa stia per dire prima ancora di parlare. Quale giovane, nell’ardua pista di decollo della vita, nel sempre più difficile processo di desatellizzazione ed emancipazione, non vorrebbe avere genitori capaci di comprenderlo prima ancora che si esprima? Un padre e una madre che accolgano ogni suo borbottio, ogni silenzio, perfino ogni reazione violenta che magari nasconde una inevasa richiesta di ascolto e di aiuto? Non esiste parente, amico, maestro o terapista che possa essere più empatico di Dio, con un aggettivo che oggi usiamo molto. “Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: Almeno le tenebre mi avvolgano e la luce intorno a me sia notte, nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce” (vv. 7-12) Già il salmista è come se profeticamente anticipasse l’opera redentiva di Cristo, colui che con la sua morte e resurrezione ci dona una speranza nuova e indefettibile che non ci sarà più notte infinita, che anche il buio più tremendo si volgerà in una pienezza di luce e questo anche qualora fossimo stati proprio noi a disperare e a rifiutare quella luce, anche quando avessimo scelto noi l’oscurità. “Sei tu che hai formato i miei reni e mi hai tessuto nel grembo di mia madre. Io ti rendo grazie: hai fatto di me una meraviglia stupenda; meravigliose sono le tue opere, le riconosce pienamente l’anima mia. Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi; erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati quando ancora non ne esisteva uno” (vv. 13-16). Commuove vedere come, migliaia di anni fa, un uomo abbia potuto scavare nelle potenzialità della sua immaginazione e usare parole come se avesse a disposizione un ecografo di ultima generazione. Come non credere di fronte a queste espressioni che la nostra vita è tale fin dall’inizio degli inizi, dal primo istante del concepimento? E come non percepire che questo sguardo d’amore primordiale, questo pensiero creativo di Dio che ci dona l’esistenza con il suo stesso desiderio, dà senso ad ogni nostro giorno, anche quello più doloroso, offre un significato ineludibile a chiunque, anche alla persona che si sentisse più sola e disgraziata sulla Terra. “Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri; vedi se percorro una via di dolore e guidami per una via di eternità” (vv. 23-24). L’uomo non può darsi spiegazione di tutto, invano cerca ragione della sofferenza e del male, ma può fidarsi di Chi lo ha chiamato alla vita e può credere che ogni suo respiro non è invano e che siamo destinati a vivere “per sempre”.

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Fonte: Sir