Salmo 142. Proprio quando l’uomo confessa che il suo spirito viene meno, lo Spirito del Signore lo raggiunge

Fra le intenzioni del salmista vi è quella di trasferire un’esperienza contingente, in una dimensione più universale che divenga dialogo con Dio nelle diverse situazioni di dolore a cui gli uomini sono chiamati.

Salmo 142. Proprio quando l’uomo confessa che il suo spirito viene meno, lo Spirito del Signore lo raggiunge

La supplica che esprime il Salmo 142 viene attribuita a Davide quando è in fuga dal re Saul. È una preghiera accorata, intensissima, che sembra descrivere una situazione disperata. Il primo verso è un grido che manifesta l’impotenza di chi lo emette nella sua stessa ripetizione: “Con la mia voce grido al Signore, con la mia voce supplico il Signore” (v. 2). L’uomo si rivolge a Dio in balia di un panico che non sa controllare “davanti a lui sfogo il mio lamento, davanti a lui espongo la mia angoscia” (v. 3) e che gli toglie il respiro fino a dargli l’impressione di perdere conoscenza: “mentre il mio spirito viene meno” (v. 4). Fra le intenzioni del salmista vi è quella di trasferire un’esperienza contingente, in una dimensione più universale che divenga dialogo con Dio nelle diverse situazioni di dolore a cui gli uomini sono chiamati. Possiamo allora trasporre queste parole anche alla dimensione famigliare. Molto spesso i casi di cronaca nera più efferati si verificano all’interno delle mura domestiche. È come se la violenza si sia manifestata perché un grido prima magari soffocato e poi emesso tardivamente non sia stato ascoltato e raccolto da chi poteva venire in soccorso. Ma pensiamo anche a tutti quei nuclei famigliari che, con eroicità quotidiana, accudiscono al loro interno un membro con una grave disabilità, o una malattia che necessiti un continuo supporto di cure. E poi vi sono le tante divisioni silenziose, che, se non affrontate, creano solchi fra gli sposi molto difficili da ricolmare. Tante coppie è come se si perdessero di vista e senza quasi accorgersene trascinino vite in compresenza, ma non più in comunione. In tutti questi ambiti il male si annida, non sempre e solo come peccato, ma anche, misteriosamente, come sofferenza innocente. Anche per questo allora possiamo seguire quello che i padri della Chiesa hanno sempre fatto nella loro esegesi e leggere nel lamento del salmo un’eco dei sentimenti che Cristo ha vissuto nel Getsemani e durante tutta la passione. Se lo stesso Gesù, nella pienezza della sua umanità, ha potuto sperimentare l’apparente assenza del Padre, non dobbiamo farci prendere dallo sgomento se questa esperienza di totale smarrimento viene vissuta anche all’interno delle nostre case. Ma è a questo punto che la preghiera, nel suo affidarsi al Padre, riceve come una luce particolare che penetra il buio iniziale e permette di vedere i segni di speranza che il Signore offre alla sua creatura e che spesso possono incarnarsi nell’aiuto di un fratello: “Tu conosci la mia via: nel sentiero dove cammino mi hanno teso un laccio. Guarda a destra e vedi: nessuno mi riconosce. Non c’è per me via di scampo, nessuno ha cura della mia vita. Io grido a te, Signore! Dico: “Sei tu il mio rifugio, sei tu la mia eredità nella terra dei viventi” (vv. 4-6). Pare di vedere quasi una figura umana in carne ed ossa che venga in soccorso di uno scalatore che sia rimasto bloccato su una parete di montagna. Una guida che gli faccia vedere dove mettere il piede, che gli stringa la mano nel passaggio più esposto, che lo faccia sentire al sicuro, come se fossero già all’interno del rifugio, anche se non sono ancora arrivati alla meta. Proprio quando l’uomo confessa che il suo spirito viene meno, lo Spirito del Signore lo raggiunge, quasi fosse uno scambio di ossigeno bocca a bocca. “Ascolta la mia supplica perché sono così misero! Liberami dai miei persecutori perché sono più forti di me” (v. 7). La condizione determinante perché avvenga la Grazia della consolazione è la sincera umiltà di sapersi deboli, fragili, incapaci di affrontare da soli avversari troppo più potenti. E tante volte i più spietati persecutori siamo noi stessi e i nemici sono dentro di noi, sotto forma di sensi di colpa, di complessi e disturbi che non ci permettono di leggere la realtà com’essa è, ma deformata e trasformata in quel carcere a cui allude l’ultimo verso: “Fa’ uscire dal carcere la mia vita, perché io renda grazie al tuo nome; i giusti mi faranno corona quando tu mi avrai colmato di beni” (v. 8). I biografi ci dicono che queste parole furono quelle che volle recitare San Francesco, la sera del 3 ottobre 1226, poco prima di spirare, considerando questo salmo il suo preferito. La vita come una liberazione! Fa, o Signore, che nella fede sia questa l’esperienza finale di tutti noi.

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Fonte: Sir