Salmo 6. Quella ineludibile fragilità dell’uomo che si rivolge al suo Creatore

Il Signore è come un medico che sa ascoltare ogni mio sintomo, non solo la mia voce, ma tutto il mio corpo.

Salmo 6. Quella ineludibile fragilità dell’uomo che si rivolge al suo Creatore

Ancora un’alternanza rispetto alla settimana scorsa e torniamo col Salmo 6 ad una preghiera della sera. Questo è uno dei salmi che l’ebreo praticante recita quotidianamente, al mattino e al pomeriggio e che i padri della Chiesa, come Cassiodoro, fin dal VI secolo, inseriscono fra i sette salmi penitenziali, che da allora entrano a far parte fondamentale della preghiera liturgica cristiana. Viene anche elencato nel Salterio fra i salmi cosiddetti “dei malati”, perché chi lo recita non nasconde il suo stato di prostrazione anche fisica, ma è soprattutto la dimensione spirituale dell’orante quella che ha validità universale perché mette in evidenza la ineludibile fragilità dell’uomo che si rivolge al suo Creatore. “Signore, non punirmi nella tua ira, non castigarmi nel tuo furore. (v. 2) Il Salmo si apre con una domanda disarmante, che percorre tutta la Bibbia e attraversa da sempre l’animo umano anche quello dell’uomo contemporaneo. La richiesta a Dio di “sganciare” il male, il dolore, la malattia, da un rapporto causale con il nostro peccato, come, invece, la mente, il nostro senso di colpa è spesso portato a credere. È quello che Gesù afferma una volta per tutte quando risponde ai suoi discepoli che gli chiedono conto della causa della cecità del cieco nato: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio.” (Gv 9, 2-3) Gesù ribadisce in sostanza quanto nella tradizione ebraica ha già affermato con la sua drammatica testimonianza il grande padre Giobbe che grida con forza agli amici teologi che lui non ha colpa per le sofferenze che sta patendo e non vuole credere ad un Dio che punisce il male del peccato con il male della sofferenza. La giustizia di Dio non è questa, non c’è nesso, altrimenti saremmo tutti malati senza speranza. Invece il male esiste, anche il più scandaloso male innocente, ed è segno di contraddizione, motivo di angoscia, mette in evidenza la nostra nudità, può anche mettere in crisi la nostra stessa fede, ma quello che patiamo non è la punizione di un Dio giudice spietato, anzi: egli è l’unico, anche qualora si fosse allontanato l’ultimo amico, che non mi abbandona, che ascolta fino alla fine il mio grido di dolore “Pietà di me, Signore, sono sfinito; guariscimi, Signore: tremano le mie ossa. Trema tutta l’anima mia. Ma tu, Signore, fino a quando? Ritorna, Signore, libera la mia vita, salvami per la tua misericordia” (vv. 3-5), Altro che giudice! Il Signore è come un medico che sa ascoltare ogni mio sintomo, non solo la mia voce, ma tutto il mio corpo: le ossa come l’anima: le ferite che si vedono e si possono toccare e quelle che riguardano la psiche, così difficile da curare! L’ebreo che pregava questo salmo non aveva ancora raggiunto la consapevolezza di un aldilà e quindi chiede a Dio di non dimenticarlo fra i morti, ma noi oggi – e ancor più in questi giorni in cui celebriamo la Pasqua del Signore – professiamo la sua vittoria definitiva sulla morte nella resurrezione di Gesù e possiamo dire con le parole della serva di Dio Chiara Corbella, ormai cara non solo alla Chiesa di Roma, che “siamo nati e non moriremo mai più”. Tutto questo, misteriosamente ma in modo non meno tangibile, getta luce in ogni casa in cui vi sia un anziano che sta vivendo i suoi ultimi giorni, al capezzale di ogni bambino malato in ospedale attorniato dai suoi genitori, sotto le macerie di una città bombardata; nel cuore inconsapevole di una ragazzina che ha perso tutti i suoi famigliari. “Sono stremato dai miei lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, bagno di lacrime il mio letto” (v. 7) Ogni volta che leggo questo verso mi commuovo per quanto il dolore paia annullare la distanza dei millenni e faccia ritrovare l’uomo all’uomo. Chi di noi non ha pianto nel suo letto? Chi di noi non si è abbandonato alle lacrime almeno una volta nella sua vita? Lacrime che possono apparire infantili, o isteriche, o senza senso, ma sono lì, non puoi eluderle, sono una presenza fisica che bagna le lenzuola in cui cerchi rifugio. Il Signore le vede, le tocca, è come se volesse asciugarle e in un altro salmo si legge “nel tuo otre raccogli le mie lacrime” (Sal 56,9). Per Dio le nostre lacrime sono così preziose che egli le raccoglie una per una come fossero acqua preziosa nel deserto. Un Dio così, “che ascolta la voce del mio pianto (…) ascolta la mia supplica e accoglie la mia preghiera” (v. 9-10) è davvero un padre a cui non posso rimproverare nulla, tanto meno la mia sofferenza, anche fosse la peggiore malattia, perché so con certezza che essa non può venire da lui. La consapevolezza che già il popolo ebraico andava assumendo diviene certezza per il cristiano che ha visto Gesù morire in Croce per lui. Un Dio che ha scelto di passare per quella strada, per la strada della sofferenza e della prostrazione peggiore, per la via della morte più scandalosa per portarci una salvezza eterna. Non c’era altra via per salvarci? No, Signore, aiutaci ad accogliere il mistero della tua Pasqua, di questo passaggio dalla morte alla vita nuova che ci chiedi di compiere tutti ed allora pienamente vivremo del tuo amore.

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Fonte: Sir