Il Natale in Perù nei ricordi di Michela Tommasin. «C’è attesa per Gesù»

Perù. Michela Tommasin ricorda il Natale vissuto in missione con il marito Nicola. «Nel quartiere ogni occasione è buona per fare festa insieme. Mi ha colpito la generosità nello scambiarsi le cose: chi ha pochissimo è pronto a donare qualcosa a chi non ha nulla»

Il Natale in Perù nei ricordi di Michela Tommasin. «C’è attesa per Gesù»

Il 25 dicembre – data, segnata in rosso sui calendari di mezzo mondo – si concentrano un’infinità di tradizioni, usanze e costumi nate a partire dalla notizia, duemila anni dopo ancora sconvolgente, di un Dio che si è fatto carne in un bambino di Betlemme. È un tempo di gioia, di comunità, di condivisione. È un tempo per aprirsi all’altro e per aprire il
proprio cuore alla carità. Alcuni amici della Caritas diocesana – portatori a Padova ciascuno di un pezzettino di mondo – hanno voluto condividere con la Difesa il loro Natale: il Natale dei ricordi di una terra lontana, il Natale oggi a distanza in un mondo sempre più connesso. Michela Tommasin, sposa missionaria della Comunità di Villaregia, lavora nell’ambulatorio della Caritas di Padova. Nel 2011, per un anno intero, è stata missionaria con il marito Nicola in Perù, nel quartiere di Mariano Melgarm, il più povero di Lima. Di quel Natale conserva ricordi vivissimi: «Nell’emisfero australe il Natale è un’esperienza incredibile: se in Italia fa freddo, lì, in quelle settimane, si assiste all’esplosione dell’estate». Ma non è solo il calore atmosferico a rimanere nella sua memoria: «La popolazione ha una fede molto viva, che dimostra soprattutto nei gesti, come i fuochi artificiali che vengono scoppiati proprio la notte di Natale. Le persone aspettano con ansia la venuta di Gesù, si tratta di gente a cui si illuminano gli occhi di fronte alla statuetta del Bambino messa in un semplice presepe alla mezzanotte». Michela Tommasin, assieme al marito, era a servizio nella parrocchia della Trinidad e delle otto cappelle sparse nel territorio: «Dato che è estate, si offrono ai bambini fette di panettone con spalmato sopra un surrogato di cioccolata. È un modo per essere vicino alle famiglie in povertà». Dove mancano i capitali economici, abbonda il capitale sociale: «Nel quartiere ogni occasione è buona per fare festa, la gente si mette in strada per cucinare insieme. Mi ha colpito la loro generosità nello scambiarsi le cose: chi ha pochissimo è pronto a donare ciò che ha a chi non ha nulla». Ancora oggi, dopo più di dieci anni, Michela continua a ricevere dagli amici peruviani lettere con dentro dei cioccolatini. «Ci ringraziavano sempre per la nostra presenza. Per loro era il segno che Dio non li aveva abbandonati».

«Il Natale è un grande messaggio di speranza»

Makak John Gile Yual, 37 anni, cattolico originario del Sud Sudan e rifugiato in Etiopia, si trova a Padova dal 2020. Poche settimane fa si è laureato con una tesi sul rapimento dei bambini tra Sud Sudan e Congo. Yual è il primo laureato in assoluto del progetto dei “corridoi universitari”, ovvero quei permessi di soggiorno per motivi di studio concessi ai rifugiati. Nel dramma dei conflitti, della povertà, e pure della separazione dalla moglie e dai figli, il Natale per lui resta messaggio di speranza. «Nella comunità del Sud Sudan, al 98 per cento di fede cristiana, il Natale è molto importante. La gente prepara le case, predispone abiti nuovi e celebra in famiglia». La vigilia, a partire dalle due del pomeriggio, i cori di ragazzi e di donne marciano per il villaggio a ritmo dei tamburelli e alla presenza degli anziani. La veglia inizia alle 22.30, c’è la messa di mezzanotte, ma è alla messa del mattino seguente che le persone manifestano
concretamente la loro carità. «C’è chi porta all’altare un sacco di grano, chi una mucca, un pollo o una capra, beni da dividere nella comunità e da consegnare ai poveri. Nel pomeriggio poi la gente va casa per casa, portando doni, cioccolata e auguri di Natale». Il Natale felice dei vecchi tempi continua anche nei campi profughi. Anzi, forse ancora di più: «La gente nei campi profughi si rivolge ancora di più a Dio: è quando piange che la gente chiede di vedere la nuova luce che viene. Il Natale tra i rifugiati è ancora più speciale: al posto dei doni si regala una parte della razione di cibo, ma donare resta fondamentale». Le difficoltà non si negano: «Siamo in una situazione in cui è facile sentire la disperazione, eppure abbiamo un detto: è Dio che trasforma i secondi in ore, le ore in giorni, in giorni in mesi e i mesi in anni. La speranza è teorica ma è anche pratica, e il Natale può portare nuova speranza». “Un assaggio” di speranza arriva dall’accoglienza sperimentata in Italia: «L’Italia è un paese ricco di umanità, capace di accoglienza, che si sta impegnando, anche grazie alla Comunità di Sant’Egidio, per portare pace al mio Sud Sudan».

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)