“Le mie epidemie”: dal colera a Ebola, fino al Covid. Greco racconta la sua vita sul campo

Il medico epidemiologo consulente per l’Oms e membro del Ct nel suo libro ripercorre la sua esperienza professionale, raccontando le epidemie che ha affrontato e studiato ieri e oggi: “La gestione del Covid? Sono mancate l’intelligence e l’epidemiologia di campo”

“Le mie epidemie”: dal colera a Ebola, fino al Covid. Greco racconta la sua vita sul campo

Un libro fatto di esperienze sul campo, chilometri nelle gambe, zaini in spalla e volti. Tantissimi volti, quante sono le persone che, in tutti i suoi anni di attività, Donato Greco ha incrociato. Si chiama “Le mie epidemie. Dal colera a ebola al Covid-19, mezzo secolo di emergenze sanitarie in Italia e nel mondo” ed è il nuovo libro edito da Scienza Express. L’autore, come detto, è Donato Greco, medico epidemiologo consulente per l’Organizzazione mondiale della sanità e, dal 16 marzo 2021, membro del Comitato tecnico scientifico per l’emergenza Covid-19. Greco è stato affiancato nella stesura da Eva Benelli, giornalista responsabile della redazione di EpiCentro, il portale di epidemiologia per la sanità pubblica dell’Istituto Superiore di Sanità, membro del Comitato scientifico per la sorveglianza post marketing dei vaccini anti Covid dell’Agenzia italiana del farmaco. Fondatore del Laboratorio di epidemiologia e biostatistica dell’Iss, attività che ha seguito per quasi 30 anni, Greco nel libro ripercorre le sue esperienze dagli anni Settanta a oggi. “Quella che propongo – si legge nell’introduzione – è solo la mia esperienza, anche con qualche fuga estera, ma nessuno dei lavori qui presentati mi vede come unico e nemmeno primo autore: le indagini epidemiologiche non si fanno da soli, c’è necessariamente una squadra, prima di tutto fatta dai colleghi del campo ove si opera, e poi dal team dell’Iss”.

È un caso che questo libro autobiografico abbia visto la luce nel bel mezzo di una pandemia? “No, assolutamente. È da 30 anni che con Eva (Benelli, ndr) parliamo di questa possibilità, e l’occasione giusta è arrivata un paio di anni fa, più o meno quando sono andato in pensione. Ci siamo messi a lavorare e, mentre ci avvicinavamo alla fine, è scoppiata questa nuova emergenza sanitaria. Quando tutto è cominciato, io facevo il nonno ma, quando sono stato contattato dall’Iss, non potevo tirarmi indietro. Poi certo, questo libro è anche una gratificazione personale: ho sempre saputo che, prima o poi, avrei dovuto raccogliere queste memorie di vita vissuta”. Una coincidenza temporale, dunque, avvalorata anche dal fatto che, nel libro, il Covid è racchiuso in un solo capitolo: “La situazione è in continua evoluzione, non è facile fissare sulla carta alcune considerazioni”.

Vita vissuta, esperienze dirette, Greco ci torna più volte: di ciò che racconta, è stato testimone oculare. “Se devo scegliere un’immagine, scelgo quella di me che, con una cassetta con i ferri da idraulico, salgo il tetto di un albergo di Lido di Savio, smonto le ghiere di alcuni pannelli ed estraggo le guarnizioni. Abbiamo trovato così la legionella, era il 1981. Si erano registrati molti casi di polmoniti tra gli ospiti di quella struttura, anche alcuni decessi. Sul campo, avevamo trovato l’origine”. La legionella è un batterio ambientale mortale, scoperto nel 1977 negli Stati Uniti quando 221 persone iniziarono ad ammalarsi di sintomi simili alla polmonite. Ci volle del tempo per capire che, tutte quelle persone, si erano ammalate in occasione della 58ª convention annuale della Legione, celebrata a luglio al Bellevue Hotel di Philadelphia. “Noi, quel giorno in Romagna, scoprimmo la sua diffusione italiana. Per anni influenzò il turismo in Europa e America: basti pensare che la cittadina spagnola di Benidorm venne chiusa per due anni”.

Dalla Romagna all’Uganda, durante Ebola: “Stavamo curando i malati, stavo effettuando un prelievo di sangue venoso, il dito mi entrò nella pelle di quell’uomo, ormai ridotta a una spugna imbevuta di sangue. Ebola portò con sé tanti tentativi e tanti errori, che portarono alla morte anche di 14 nostri collaboratori”. E ancora, l’epidemia di poliomielite in Tagikistan, con mille casi che devastarono un paese alle falde del Pamir: “Vaccinammo 7 milioni di persone in due settimane: a bordo di un piccolo aereo russo, sui 4 mila metri d’altezza, provammo e riprovammo più volte per raggiungere tutta la popolazione. Quegli uomini e quelle donne mi colpirono: cresciute nel mito di Avicenna, il cui ritratto era ovunque, ci guardavano con occhi colmi di speranza e fiducia”. E poi il matrimonio a Paestum che contagiò di salmonella 400 persone, tutti gli invitati; e ancora, “il colera in Albania, con i vaccini portati sul dorso degli asini, con il rischio che il caldo accumulato durante il viaggio li avrebbe resi inutilizzabili. Di tutte queste esperienze, un aspetto non dimenticherò mai: la capacità di sofferenza silenziosa e modesta dei più poveri quando vengono colpiti da una malattia. Perché, ahimè, alle epidemie piacciono i poveri: di fronte ai loro drammi, era il mio lo sguardo più emozionato e sofferente. Tra loro, nessuna reazione scomposta, nessuna ingiuria contro le istituzioni”.

Tornando al presente, in cosa è diversa – se è diversa – l’epidemia di Covid-19? “La caratteristica più lampante è l’assenza dell’intelligence, di una visione culturale complessa. L’epidemiologia di campo è stata completamente dimenticata”. Nell’introduzione, infatti, scrive: “Già dall’inizio del 2000 abbiamo assistito alla marginalizzazione di questa cultura: l’avvento dell’Aids, dell’epidemiologia molecolare, dell’epidemiologia computazionale, dei modelli matematici, sembrano aver reso desueta l’epidemiologia di campo. La chiusura di molti osservatori epidemiologici e dei servizi di epidemiologia delle Asl, il progressivo invecchiamento del personale del territorio e i sistematici tagli finanziari al servizio nazionale hanno fatto il resto. L’epidemiologia di moda è quella dei grandi studi, quella clinica e ambientale, l’epidemiologia computazionale, quella che produce buone pubblicazioni ad alto impact factor. Ora, dopo il dilagare di Covid-19, la speranza è che parole come indagine epidemiologica, ricerca dei contatti, sorveglianza, prevenzione, tornino di moda, che si torni alla formazione di epidemiologia applicata, ci si stacchi dallo schermo del laptop e si consumi nuovamente la suola delle scarpe per intervistare i cittadini”. Quando parla dello studio delle malattie infettive, Greco parla di “cenerentole della società, che non contano più nulla. C’è un’enorme sottovalutazione, purtroppo. Eppure, le malattie infettive hanno un imponente peso sociale: un caso di meningite chiude una scuola, anche un quartiere”.

Come è stata gestita in Italia questa pandemia? “Come detto, ho la netta impressione che nel 2020 l’intelligence sia venuta meno. In questo 2021 si sta recuperando. Una cosa, però, va detta: si è sempre fatto il possibile. Certo, molto si sarebbe potuto fare diversamente – queste sono considerazione che si fanno sempre, è ovvio, a posteriori –, ma 196 paesi sono stati travolti da un’emergenza senza precedenti. Oggi mi sembra ci sia un’intesa politico-tecnica diversa, un modello decisionale più fermo, come testimonia la scelta del governo di accettare una sfida e dunque un rischio”. Quanto alla campagna vaccinale? “Deve essere chiaro a tutti che l’obiettivo non è la sconfitta del virus, ma la riduzione di morti e feriti. Il mondo ha lavorato per accelerare i tempi, scendendo anche a patti con informazioni fluttuanti: tutti aspetti che si devono mettere in cantiere, quando si è in emergenza, soprattutto di fronte a un’ecatombe. Ma non è stato fatto nulla di avventato, siamo di fronte a una situazione in continua evoluzione e dobbiamo abituarci alla flessibilità. Mi sembra che ora si stia procedendo nella giusta direzione”.

Se dal punto di vista dell’intelligence l’impressione è che si stia recuperando il tempo perduto, dal punto di vista comunicativo non si registrano passi avanti: “Alcune cose clamorose non sono state fatte – sottolinea Benelli –. Per esempio, parlando di ragazzi: funziona benissimo il coinvolgimento dei pari, è noto a tutti. Non ce n’è stata traccia. Così come non s’è visto il minimo tentativo di responsabilizzare i cittadini. In altri Paesi sta andando meglio: su questo aspetto il ritardo, anche culturale, dell’Italia è palese e persistente. Onestamente, penso che una comunicazione migliore sarebbe stata non solo necessario, ma proprio etica”.

Ambra Notari

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)