Navi quarantena, due operatori umanitari raccontano “quel sistema sbagliato che sospende il diritto”

Il racconto dall’interno dei ragazzi che erano a bordo insieme ad Abou, il ragazzo di 15 anni morto una volta sceso a terra. Senso di frustrazione, burn out e rabbia. “L’isolamento è impossibile. Una scelta solo mediatica, è ora di cambiare”

Navi quarantena, due operatori umanitari raccontano “quel sistema sbagliato che sospende il diritto”

Il primo forte senso di frustrazione è arrivato quando Abou,15 anni, non ce l’ha fatta. Il ragazzo è peggiorato in fretta, in pochi giorni, l’evacuazione medica non l’ha salvato. Sul caso è stata aperta un’inchiesta ma il dubbio che a incidere pesantemente su quella morte sia stato anche il “sistema delle navi quarantena” resta. E sapere di non aver fatto abbastanza, di non essersi opposti a una gestione sbagliata, tormenta le notti. E’ per questo che per la prima volta alcuni operatori che erano a bordo della  nave Allegra hanno deciso di parlare con Redattore Sociale e raccontare cosa succede su questi spazi galleggianti, che il Governo italiano ha pensato come luoghi di isolamento temporaneo per i migranti. Abbiamo raccolto le loro testimonianze, i nomi che riportiamo sono di fantasia ( i ragazzi hanno chiesto di mantenere l’anonimato) ma ne abbiamo verificato le identità e il ruolo. 

Effetto burn out: “Dopo l’esperienza sulle navi quarantena ho avuto un crollo”

“Dopo la morte di Abou non ho rinnovato la mia missione, dovevo stare un altro mese ma ho preferito scendere. Non volevo più lavorare, mi sono presa del tempo. Ora faccio altro” racconta Martina, che ha iniziato a fare l’operatrice umanitaria a 25 anni. “Ora ne ho 37 e per me è ancora una scelta di vita. E allora cosa ci facevo là sopra? Quale era il mio ruolo in un luogo come quello?”. Chi si occupa di cooperazione internazionale lo chiama il “dilemma umanitario”: curare è sempre un imperativo categorico, ma in certi contesti la presenza degli operatori umanitari rischia di avallare scelte improprie. Di contro, non esserci vuol dire lasciare le persone senza un supporto necessario. Eppure l’idea di essere complice di un sistema che sospende il diritto e calpesta, in nome di una emergenza sanitaria, la dignità di persone in fuga, a Martina ha fatto venire il primo attacco di panico della sua vita. Così ha lasciato la collaborazione con Croce Rossa, ha smesso di lavorare per qualche mese e ora presta servizio in un ospedale, nelle sale di rianimazione dove sono curati i pazienti con il Covid-19.

“Quando sono salita sull’Allegra avevo già una titubanza iniziale, era l’ultimo posto in cui volevo stare - spiega -. Sarei voluta scendere il giorno stesso, ma mi sono detta: proviamo a vedere. Se scendiamo tutti lasciamo sole queste persone,  se restiamo cerchiamo almeno di fare qualcosa dall’interno: proviamo a umanizzare questa situazione”. Ma col passare dei giorni Martina capisce che il sistema non funziona. “Era tutto agghiacciante: le energie venivano a mancare, l’impegno era h24, eppure per quelle persone, fatte salire lì senza sapere neanche perché, la condizione non cambiava. Quando poi è successo di Abou ho avuto un tracollo emotivo. Dopo uno scontro coi nostri responsabili è arrivato il momento del burn out e il primo attacco di panico”.

La condizione stessa della nave non ha aiutato. “Non potevi isolarti, non potevi scendere, eri sempre lì a vivere in una condizione assurda con pochi medici e infermieri per tutte quelle persone - aggiunge. Da lì capisci che le navi non risolvono nulla, non garantiscono neanche una vera quarantena. Le persone rimangono insieme anche se in settori separati. Spesso chi si negativizza si trova a stare con chi è positivo e l’isolamento diventa infinito”. Le persone salvate insieme ad Abou dalla Open Arms il 10 settembre scorso erano state fatte salire direttamente sulla nave Allegra. Il 29 settembre le condizioni del ragazzo sono talmente gravi da richiedere un’evacuazione medica, morirà in ospedale qualche giorno dopo.

“Dopo la morte di Abou mi aspettavo che cambiasse qualcosa, che ci fosse una sollevazione, bisognava parlare, denunciare, e invece nulla - conclude-. La sua morte è stata strumentalizzata da tutti: il povero ragazzo migrante che non ce l’ha fatta. No, era un ragazzo che stava dove non doveva stare, non è stato trattato come una persona. Meritava un’assistenza diversa”. 

Dov’è l’indipendenza dell’aiuto umanitario? 

Anche Marco è stato per 45 giorni sulla nave quarantena Allegra. Anche Marco era a bordo insieme ad Abou. Anche Marco oggi vive la stessa frustrazione. “L’impotenza che si sente di fronte a questa situazione è altissima. Soffrivamo noi a stare in mare, potendo muoverci e sapendo di avere una data di fine operazione, figuriamoci i migranti, portati lì senza che sapessero il motivo - spiega -. Le necessità di base venivano assicurate, il cibo, l’acqua, le mascherine. Ma l’assistenza non è solo questo. Ho sempre pensato che fosse tutto un grande teatro, una messa in scena: si potevano isolare meglio le persone a terra, assicurandogli anche assistenza. E invece no, dovevano stare in mezzo al mare. E’ un isolamento mediatico, teatrale”.

Marco ricorda il via vai di persone di ogni età, dalle famiglie con bambini (anche di pochi mesi) ai minori che viaggiano soli, non accompagnati. “Ci sono state diverse proteste delle associazioni di tutela ma i minori continuano a restare a bordo, è un problema non risolto - aggiunge -. Di prassi i non accompagnati dovrebbero entrare in un circuito di accoglienza e tutela diverso. Invece salgono sulle navi senza aver mai parlato con un tutore o un garante. Alla fine, anche se dormono in stanze separate, si ritrovano in una situazione di promiscuità con gli adulti”. Ma è il sistema nave quarantena a creare questa situazione: “E' difficile anche accompagnare le persone con bisogni particolari, come le vittime di tratta e chi ha subito abusi e torture. Il personale a bordo spesso non è preparato. L’ambito volontaristico è virtuoso, le persone danno il massimo a bordo ma in certi casi non basta - afferma -. Non è una nave ospedale, e così anche l’assistenza sanitaria non è quella che si può avere a terra. Quando è arrivato il gruppo della Open Arms abbiamo fatto i tamponi a bordo e separato le persone nel migliore dei modi. Ma non bastava ovviamente: capitava che le persone si muovessero negli spazi comuni, il contagio era sempre possibile”. 

L’operatore ha assistito anche all’arrivo in piena notte dei pullman con gli ospiti dei centri di accoglienza, mandati a fare l’isolamento sulle navi. “Scene davvero pietose: vedevamo queste famiglie che aspettavano sulla banchina alle due di notte, mamme con bambini, persone stremate - ricorda -. Non gli avevano spiegato nulla, abbiamo fatto noi l’informativa. Tutti temevano di salire sulla nave per essere rimpatriati, una cosa assurda”. 

Dopo le proteste delle organizzazioni, le denunce di Arci e Asgi e l’interrogazione parlamentare di Erasmo Palazzotto, il trasferimento dai centri è stato interrotto. Ma le anomalie non si sono fermate. Marco racconta, per esempio, della lista dei tamponi da fare con priorità alle persone che dovevano essere rimpatriate. E si chiede: “Dov’è l’indipendenza di un operatore umanitario in questo caso? Noi dovremmo essere autonomi, indipendenti, non siamo questurini, dobbiamo curare tutti: dal peggiore dei migranti al più virtuoso. Il nostro obiettivo è la cura delle persone, trattiamo tutti allo stesso modo. E allora, noi nemmeno lo dovremmo sapere chi abbiamo davanti. Dobbiamo assicurare a tutti il trattamento migliore”.  

Così non è stato e ora anche lui ha questo grande rimorso di essere stato parte di un sistema dove il diritto è sospeso e le ragioni politiche contano più di quelle sanitarie. “Oggi la mia denuncia la faccio non solo come operatore umanitario ma come cittadino italiano, vorrei che chi opera nel settore aprisse un dibattito serio sul sistema delle navi quarantena, un modello che non funziona e che va cambiato”. 

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)