Pandemia e caporalato, “richiesta ancora maggiore di manodopera a basso costo”

Condizioni igieniche precarie, alloggi di fortuna: è questa la realtà in cui vivono tanti lavoratori irregolari dei campi. “Questi ghetti sono diventati veri e propri focolai”, denuncia l’attivista del Cnca Jean-Rean Bilongo

Pandemia e caporalato, “richiesta ancora maggiore di manodopera a basso costo”

“Volevamo braccia, sono arrivati uomini e donne”, disse Max Frisch, scrittore svizzero-tedesco, per descrivere l’immigrazione italiana degli anni ‘70 in Svizzera. Frase ancora attuale se si pensa al fenomeno del caporalato e dello sfruttamento lavorativo nel nostro Paese, “un fenomeno che è parte strutturale dell’economia italiana”, dice amareggiato Riccardo De Facci, presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) in occasione del webinar “Siamo uomini o caporali”, organizzato proprio dall’associazione che riunisce 260 organizzazioni italiane impegnate nella promozione dei diritti di cittadinanza e nell’aiuto di persone in condizione di disagio ed emarginazione.

I numeri dello sfruttamento nei campi sono rilevanti. Secondo i dati della fondazione The European House – Ambrosetti si parla di quasi 400 mila agricoltori e lavoratori agricoli, di cui l’80 per cento di origine straniera: stiamo parlando di un quarto del totale della forza lavoro nei campi. Ci sarebbero, inoltre, tra i 50 e i 70 “ghetti” sparsi sul territorio della penisola, ovvero accampamenti informali nelle campagne dove abitano moltissimi braccianti. E questo perché, spesso residenti illegalmente in Italia, non hanno altro posto dove vivere. Tutto ciò si traduce in più di 600 milioni di mancati contributi e di quasi cinque miliardi di giro d’affari delle agromafie. Inoltre, secondo il report “Agromafie e caporalato” della Flai Cgil il fenomeno, ora, si equivale tra nord e sud: “I comuni che sono notoriamente un luogo di sfruttamento sono 400 – dice Francesco Carchedi che ha condotto l’indagine per Flai Cgil –. E sono distribuiti in modo equivalente tra nord, con 210 comuni, e sud 190 comuni”.

Ma c’è un altro aspetto a preoccupare a causa della pandemia: gli accampamenti rurali dove molto spesso vivono questi lavoratori, già in condizioni igieniche precarie, sono potenzialmente dei luoghi di grande diffusione del virus. “Abbiamo evidenze concrete per cui questi alloggi di fortuna sono diventati dei veri e propri focolai – denuncia Jean-Rean Bilongo, attivista del Cnca –. Moltissimi continuano a vivere stipati in questi accampamenti, ubicati nel cuore dei distretti agricoli. Se queste persone sono così utili al sistema produttivo nazionale, vista la loro incidenza come forza lavoro, possibile che non ci sono strategie intelligenti per tutelarli? Possibile che le regioni non prendano provvedimenti? Bisogna agire subito perché la dignità delle persone non ha prezzo”. Oltre a trasformare gli alloggi dei lavoratori in piccoli cluster dove le misure di contenimento del virus non sono applicate, l’emergenza sanitaria ha inasprito ancora di più lo sfruttamento lavorativo già drammatico nel nostro Paese. È questo il duplice effetto dell’emergenza da Covid-19: “Oltre a essere pericoloso per la propria salute andare al lavoro, la necessità di ridurre i costi di produzione, scaricando sulle fasce più deboli le conseguenze della crisi, si traduce in una richiesta ancora maggiore, nel settore agroalimentare, di manodopera a basso costo e senza diritti, conclude Fabio Saliceti, coordinatore del Gruppo tematico “Caporalato” del Cnca.

Medea Calzana

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)