Qui c’è posto. Una sedia vuota sullo zerbino per aiutare chi scappa dalla guerra e dalla fame

“Non possiamo risolvere tutti i problemi e le sofferenze del mondo – scrive l’arcivescovo di Vienna – ma non dobbiamo ignorare chi bussa alla nostra porta in cerca di un rifugio. Anche Gesù è stato un rifugiato”.

“Chiedo a Dio di suscitare nei cuori di tutti il rispetto per la vita dei nostri fratelli, specialmente dei più fragili e indifesi, e di dare forza a coloro che la accolgono e se ne prendono cura, anche quando ciò richiede un amore eroico”. (Papa Francesco, tweet di mercoledì 16 dicembre 2020)

Qui c’è posto. Una sedia vuota sullo zerbino per aiutare chi scappa dalla guerra e dalla fame

La porta di casa è aperta. Sull’uscio, sopra lo zerbino, c’è una sedia vuota.

Quella che a prima vista può sembrare un rudimentale fermaporta usato per garantire, in tempo di pandemia, un’adeguata areazione delle stanze, è in realtà l’immagine simbolo della challenge che in queste settimane in Austria – con l’hashtag “#wirhabenplatz” (qui c’è posto) – sta diffondendo attraverso i social il contagio della solidarietà verso le migliaia di richiedenti asilo che vivono nei campi profughi in Grecia. “Loro – si legge nella spiegazione della challenge –, come Maria e Giuseppe, sono alla ricerca di un luogo sicuro e di una comunità pronta ad accoglierli”.

Ad ogni sedia vuota postata su Fb vengono nominate quattro persone, gruppi o associazioni, che sono invitate a partecipare con un post e a sostenere, con un’offerta, realtà quali Medici senza frontiere o Caritas, impegnate a portare aiuto nei campi profughi di Lesbo.

Una challenge che abbraccia le diverse confessioni. “Carità e misericordia non devono essere solo parole. Dobbiamo anche viverle. Le condizioni di vita nei campi profughi in Grecia sono inaccettabili. Dobbiamo impegnarci per salvare queste persone, perché chi salva una vita, salva il mondo intero”, affermano in un video a più voci il rettore dei Verbiti p. Franz Helm, la pastora Mira Unvewitter, il parroco del duomo di Vienna don Toni Faber, la presidente dell’associazione degli ordini femminili austriaci sr. Beatrix Mayrhofer e la pastora Julia Schnizlein, parroco della parrocchia luterana di Vienna.

Agli inizi di dicembre il vescovo di Innsbruck, mons. Hermann Glettler, si è recato a Lesbo, insieme ad un gruppo di volontari di “Courage: Mut zur Menschlichkeit” (Courage: il coraggio di essere umani) e della neonata associazione fondata da Doro Blanche, attivista per i diritti umani di Graz, che da sei settimane opera nell’isola greca. Mons. Glettler ha visitato il campo profughi di Kara Tepe, “dove si consuma una delle più grandi catastrofi umanitarie dell’Europa”. Nel campo allestito dopo l’incendio di Moria, vivono oggi 7.300 persone. Uno su tre è un bambino. Le condizioni di vita nel campo sono disastrose.

“Dobbiamo smettere di girare la testa dall’altra parte e far finta di non vedere come vivono queste persone”, afferma mons. Glettler in un’intervista all’agenzia tedesca Kathpress.

Migliaia di uomini, donne e bambini alloggiati in tende di emergenza, tenuti in scacco dall’acqua. Quella potabile e per lavarsi, che c’è col contagocce, e quella piovana, che quando arriva trasforma i vialetti tra le tende in veri e propri fiumi.

“Solo ora, tre mesi dopo che il campo è stato allestito – racconta mons. Glettler – si stanno costruendo le prime docce. Quante sono? Solo 15! E solo adesso si sta provvedendo a portare nel campo l’acqua calda e la corrente elettrica. Fino ad ora i rifugiati si sono dovuti lavare con secchi d’acqua fredda in cubicoli improvvisati”.

Molto ci sarebbe da fare per i bambini – “Stavo pensando che si potevano allestire nel campo dei prefabbricati da adibire a scuola”, spiega il vescovo di Innsbruck – ma l’urgenza principale adesso è il freddo. “Le famiglie vivono in tende e dormono su letti in legno, così da proteggersi dalle temperature più rigide, ma non basta. Qui ci sarebbe bisogno di un numero enorme di termosifoni, così come ci ha spiegato il direttore del campo”.

Quando parla dei rifugiati che vivono a Kara Tepe, mons. Gletter non li chiama profughi. “Sono persone che hanno alle spalle il dramma della fuga dalle loro case e dai loro Paesi di origine la maggior parte di loro sono afghani che hanno vissuto in Iran o che hanno dovuto lasciare il loro Paese a causa di guerre e conflitti. Un numero decisamente inferiore sono gli africani, fuggiti per lo più della Somalia e dell’Eritrea che, vista bloccata la rotta del Mediterraneo, hanno deciso di arrivare in Europa passando per la Turchia”. Sono persone “psicologicamente stressate e traumatizzate, che dopo tante sofferenze e delusioni, hanno bisogno di sentirsi rispettate come persone, non come oggetti di cui ci si deve prendere cura e che vengono considerati un peso per tutti”.

Nel chiedere per loro “un minimo di umanità”, mons. Glettler aggiunge: “Nessuna di queste persone è arrivata su quest’isola in aereo”.

“L’Austria deve aprire le sue porte ad accogliere quanti hanno già avuto una risposta positiva alla domanda di asilo politico. I Paesi che sorgono alle frontiere esterne dell’Ue hanno chiaramente bisogno di maggiore solidarietà da parte degli altri Stati membri. Anche accogliere un centinaio di persone sarebbe un segno significativo”. Questo l’appello che mons. Glettler ha rivolto al governo austriaco al momento del suo ritorno dalla Grecia. Un appello raccolto e rilanciato venerdì scorso dal card. Christoph Schönborn in un editoriale sul giornale gratuito “Heute”. “Non possiamo risolvere tutti i problemi e le sofferenze del mondo – scrive l’arcivescovo di Vienna – ma non dobbiamo ignorare chi bussa alla nostra porta in cerca di un rifugio. Anche Gesù è stato un rifugiato”. “In Austria – aggiunge – ci sono sindaci, Comuni e parrocchie che hanno dato la loro disponibilità ad accogliere delle famiglie. Alla vigilia di questo Natale, chiediamo al governo austriaco di seguire l’esempio di altri Stati europei, come la Germania e la Svizzera, e di dare ospitalità ad un centinaio di famiglie con bambini piccoli che vivono oggi nei campi profughi di Lesbo”.

Il coronavirus ci ha fatto comprendere in questi mesi quanto anche la nostra società e le nostre vite possano essere vulnerabili – ricorda l’arcivescovo di Vienna -. Non possiamo dare per scontato di vivere sempre al sicuro. L’esperienza della pandemia dovrebbe farci ascoltare con più attenzione le richieste di aiuto che ci vengono da persone che sono costrette a lasciare le loro case e la loro terra a causa di guerre e persecuzioni”.

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Fonte: Sir