Rotta Balcanica: dopo il Game c’è il Silos di Trieste

Circa 150 richiedenti asilo da Pakistan, Bangladesh, Siria, Afghanistan, dopo aver attraversato l’intera Rotta Balcanica col freddo dell’inverno, passando dalla Slovenia sono approdati a Trieste. Ma nella città mitteleuropea ad attenderli c’è la strada. Vivono accampati in un vecchio Silos fatiscente, tra i topi e le folate gelide della bora. Non mancano però la sollecitudine e la solidarietà di alcune realtà locali, fra cui la Caritas. La situazione raccontata dalla rivista Popoli e Missione

Rotta Balcanica: dopo il Game c’è il Silos di Trieste

Sushil Sharma è indiano, ha 28 anni, gli occhi neri intensi e la barba lunga. Parla un perfetto inglese, i suoi movimenti sono pieni di grazia. Indossa un maglione blu di lana morbida. Anche lui, come gli altri ragazzi – circa un centinaio all’addiaccio – vive accampato da mesi nell’ex Silos di Trieste, tra topi e folate di vento. Tuttavia ha vinto il suo game: ha attraversato, cioè, la selva di ostacoli della Rotta Balcanica e ne è uscito vivo. Ha superato respingimenti, controlli. Il gelo. Il buio. I cani. I fucili. Il fil di ferro. I boschi. Le trappole. La fame. Fino ad entrare in Italia stremato e quasi senza più i piedi, dalla Slovenia, passando la frontiera dal paesino di Draga, nella zona di Basovizza. L’altro varco è Bagnoli, zona di Dolina. “Mi sono ritrovato di notte nel bosco e non sapevo più dove andare. Ero solo, non vedevo niente e non potevo fermarmi”, ricorda. “Ho pregato Dio e sono andato avanti senza sapere dove mettevo i piedi”, aggiunge. “Vengo da una piccola città dell’India. Siamo cinque tra fratelli e sorelle, quello più piccolo ha un anno”, racconta ancora Sushil, richiedente asilo come gli altri. Ha studiato farmacia, è arrivato in Albania cinque anni fa, in aereo e con un permesso di soggiorno. Cosa è successo poi? Perché è finito in strada a Trieste?

Tentare il game non è un gioco. “Mio padre ha pensato che emigrare in Europa fosse per noi un turning point; avrei mantenuto l’intera famiglia, soprattutto i più piccoli che devono ancora studiare. Così mi ha mandato in Albania. Lì ho capito che l’Albania non è l’Europa. Morivo di fame. Allora ho tentato la Route per arrivare in Italia”. Sushil si è mosso da solo, entrando clandestinamente in Montenegro, da lì in Bosnia e in Croazia. Infine in Slovenia. E da lì in Friuli. “È stata dura Sushil?”. Sorride. I ragazzi della Rotta Balcanica sono come gli eroi delle favole: il loro è un percorso ad ostacoli con mille insidie. Partono ragazzi e arrivano uomini. Il punto è che una volta giunti a Trieste non hanno terminato affatto la loro via crucis: il Silos dove finiscono per almeno tre mesi è una immensa struttura fatiscente e abbandonata, costruita assieme alla stazione di Trieste a metà dell’800 per contenere le granaglie destinate al commercio.

Cucinare in terra. Ali, 23 anni e Safir 30, sono del Kashmir, Stato conteso da India e Pakistan, dove una guerra “a bassa intensità” mina l’esistenza di tutti. Oltre 7mila persone in un anno sono finite in carcere. “Vuoi assaggiare la nostra pita come la fa la mamma?”, mi chiede Ali tutto allegro. Su una tavoletta di legno, in terra, impasta acqua farina e olio di semi. “Certo che voglio assaggiare la vostra pita”. E anche il the con il burro fuso. Safir si toglie uno sgabellino di ferro da sotto il sedere e me lo cede. Il calcestruzzo del vecchio magazzino cade a pezzi. Sono accampati in una canadese malconcia e cucinano su un fuoco acceso con quattro legni. La bora ci aggredisce a folate rapide. Nadim, 38 anni, pachistano, è arrivato prima in Turchia e poi da lì in Grecia, Macedonia, Serbia e Croazia. “Sono rimasto tre giorni in foresta senza mangiare”, ricorda. Adesso, grazie alla mensa della Caritas triestina ha un pasto al giorno assicurato. La Rotta Balcanica ferisce. Spesso lascia addosso danni psichici. Mohammed si solleva la maglietta e mostra i segni di una ferita ricucita. Ha subito un’aggressione ma non vuole dire di più.

Un’emergenza artificiale per creare caos. Oggi, grazie all’accoglienza tempestiva e a una fitta rete di solidarietà, forse, non si muore più a poche centinaia di metri dall’arrivo. Ma si continua a patire. Linea d’Ombra con Lorena Fornasir si prende cura di queste persone non appena mettono piede in città. Ma i responsabili dell’accoglienza triestina, ossia Ics, Consorzio italiano di solidarietà – Ufficio rifugiati onlus, Caritas, Diaconia valdese e Linea d’Ombra, ritengono senza alcun dubbio che questa sia “un’emergenza voluta”. Per creare un “caso migranti” e scoraggiarne l’arrivo. Ma anche per manipolare l’opinione pubblica e gonfiare la percezione di insicurezza e paura. Tuttavia prima di Natale ci sono stati due trasferimenti di richiedenti asilo nei centri di accoglienza in Nord Italia.

Mondi che non comunicano. “La vicenda Silos resta un’emergenza artificiale – risponde Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics –. Beninteso, è reale per le persone che sono lì e che soffrono al freddo! Ma è artificiale nella misura in cui viene creata appositamente da uno spaventoso disservizio pubblico”. Il sistema di accoglienza diffusa in realtà sarebbe ben strutturato a Trieste: mille sono i posti a disposizione per i richiedenti asilo e 100 per i titolari di protezione internazionale. Ma ora è saturo. Non perché ci sia una “invasione” di migranti, ma perché non c’è turnazione. I trasferimenti sono troppo lenti e poco cadenzati. “Accanto a quella diffusa – spiega Schiavone – esiste una prima accoglienza, temporanea, finalizzata al trasferimento delle persone in altre città, da farsi il più rapidamente possibile. È questo meccanismo che ora si è inceppato”. Nella spettacolare piazza Unità d’Italia, sede della Prefettura, con i suoi palazzi asburgici che guardano il Golfo, non c’è alcun sentore di quanto appena intravisto al Silos. Due mondi che non comunicano.

Il Centro diurno, oasi di umanità. Sostiamo per alcune ore nel Centro diurno di via Udine 19, gestito dall’intera rete di solidarietà triestina. Gli operatori e i volontari di People Saving People, con la loro maglietta rossa, preparano e distribuiscono del thè. Nella grande sala ci sono almeno duecento ragazzi. Seduti, in piedi, in ginocchio, in gruppo. Ridono, si scaldano, giocano a dama. Sono gli stessi che la mattina avevo incontrato nel Silos, al freddo. Molti di loro ricaricano il cellulare e si riposano. Alcuni pregano senza scarpe, inginocchiati su tappetini che poi arrotolano e mettono via. Pregano nel caos, tra le chiacchiere in molte lingue e le strette di mano.

Il “Centro diurno è un gran casino: arrivano tutti lì in massa perché non sanno dove andare”, mi avevano avvertito dall’Ics. Eppure ci si siede assieme e ci si ascolta. C’è chi dà indicazioni pratiche e chi semplicemente presta l’orecchio a una storia. Qui l’umanità ferita raccoglie i cocci e va avanti. I ragazzi e le ragazze, i volontari, le volontarie, le operatrici, gli assistenti sociali e i medici che accolgono hanno sorrisi grandi e donano coraggio. Perché il viaggio proseguirà. E questa non è che una sosta: bisogna rimettersi in forze, conservare il calore e andare avanti.

Ilaria De Bonis*

*reportage nel numero di gennaio di Popoli e Missione

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Fonte: Sir