Corridoi umanitari. Migranti, non tutto è perduto

L'esperienza dei corridoi umanitari mostra all'Europa una possibile strada da seguire, proprio nel momento in cui più forte è la diffidenza. L'analisi di Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas italiana, apre alla speranza e invita a non arrendersi.

Corridoi umanitari. Migranti, non tutto è perduto

Talvolta, dopo settimane difficili in cui tutto appare irrimediabilmente perduto, avviene qualcosa che riaccende le nostre speranze, magari flebili, ma sufficienti a non far naufragare completamente la nostra fiducia verso una società che a tratti appare smarrita, in preda a una isteria che non le permette di capire cosa stia realmente accadendo.

Quante voci, minacce, provocazioni abbiamo ascoltato negli ultimi tempi a proposito di immigrati, rifugiati e organizzazioni non governative, dipinti come il nemico contro cui scaricare tutte le ansie e le paure contemporanee. Quante volte la solidarietà è stata messa in discussione e con lei tutti coloro che fino a ieri pensavano di operare per il bene comune.

Sarebbe difficile contare le parole d'odio che in Europa o in America stanno connotando il dibattito pubblico su questi temi.

Un dibattito, peraltro, che viene alimentato quotidianamente non solo attraverso una narrazione distorta, ma anche con scelte che non hanno precedenti per crudeltà e insensatezza. Il limite si è raggiunto nei giorni scorsi con la vicenda dei bimbi separati dai genitori alla frontiera tra Messico e Usa. Non si fa fatica a definirla una vicenda disumana.
In questo contesto appare sempre più difficile immaginare un cambio di rotta, che porti a una visione lungimirante, capace innanzitutto di rispettare i diritti umani di chi è costretto a fuggire e magari a rimanere per giorni a bordo di una nave, in attesa che qualcuno lo faccia sbarcare.

Ma non tutto è perduto. Qualcosa, in grado di riaccendere la speranza, è successo nei giorni scorsi, quando altri 139 profughi dall'Etiopia sono arrivati con il corridoio umanitario promosso dalla Cei. Piccoli segnali che vanno, però, nel senso da noi auspicato ovvero verso una società aperta e accogliente, in grado di mettere in campo i suoi uomini e le sue donne migliori.

Nelle istituzioni, nel terzo settore, nella Chiesa c’è un esercito di persone di buona volontà che sanno ancora immaginare una società migliore dove la parola solidarietà viene pronunciata con orgoglio. Sono loro a cui dobbiamo guardare con rispetto, nutrendo quella fiducia che viene continuamente messa in discussione ma che al contempo sarà il vero motore del cambiamento. È questione di tempo.

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