I migranti tra noi. Sono persone, non animali da circo

Gianfranco Bettin e le politiche di accoglienza in Veneto. «La Chiesa cattolica è la realtà planetaria più consapevole: capisce come si comporta un giovane maliano qui, perché è presente in Mali. Fa da ponte anche con le famiglie di origine. La Chiesa possiede una visione globale, che si traduce in un inestimabile contributo a capire questo nostro mondo»

I migranti tra noi. Sono persone, non animali da circo

«Don Luca Favarin rappresenta il Veneto intelligentemente interessato a creare comunità più giuste, umane e solidali. Si tratta di percorsi operativi e di reti concrete che fa rabbia non abbiano più spazio». Così Gianfranco Bettin, sociologo, scrittore e saggista, 63 anni, presidente della municipalità di Marghera. Insieme ad altri relatori venerdì 29 giugno sera, all’interno del ristorante etico “Strada facendo” a Chiesanuova, ha presentato il libro di Favarin Animali da circo. I migranti obbedienti che vorremmo (San Paolo Edizioni), con la prefazione di Gad Lerner. È l’esperienza maturata nei nove centri di accoglienza gestiti da Percorso di vita onlus, sulla scia di figure come don Gino Rigoldi o don Luigi Ciotti.

«I cattolici, ben al di là della pur importante Caritas, sono la gran parte della rete con cui sono stati accolti i migranti a Nordest e in tutt’Italia. Del resto, la Chiesa cattolica è la realtà planetaria più consapevole: capisce come si comporta un giovane maliano qui, perché è presente in Mali. Fa da ponte anche con le famiglie di origine. La Chiesa possiede una visione globale, che si traduce in un inestimabile contributo a capire questo nostro mondo».

C’è anche il professor Antonio Silvio Calò recentemente insignito del “Premio Cittadino europeo 2018” per aver accolto nella casa di famiglia sei giovani sopravvissuti al naufragio di Lampedusa…
«Riconoscimento importante, prestigioso, significativo. Sottolinea il valore del gesto coraggioso in un contesto come quello della provincia di Treviso. Va bene premiare il valore dei principi e dei comportamenti, che sono il sale della vita, tanto più se ispirati dalla solidarietà concreta. Tuttavia il premio europeo al professor Calò non deve trasformarsi nell’omaggio ipocrita al singolo o, peggio, nell’alibi che copre il vuoto istituzionale della Regione».

Qual è il punto dirimente per il Veneto in materia di accoglienza? 
«C’è la rete informale molto sviluppata, cui si deve in massima parte la cosiddetta “integrazione”. Cioè una reale possibilità di inserimento dei migranti, che è il modo più intelligente e razionale per evitare problemi altrimenti giganteschi in società “movimentate” come le nostre. Su un altro versante, c’è il mercato del lavoro e perfino immobiliare che in qualche modo fa combaciare gli interessi privati con la domanda. Il risultato è ciò che il governatore Luca Zaia spaccia come “modello veneto di integrazione” ogni volta che lo si critica o che fioccano accuse di discriminazione. Nella realtà, in Veneto c’è un vuoto abissale di iniziative pubbliche che produce ingiustizie, disorientamento, emarginazione. E Zaia continua a citare il Rapporto Caritas per dimostrare che il Veneto non ha nulla da rimproverarsi. Peccato che quel documento parli di integrazione sulla base della convenienza, cioè della mano d’opera migrante e del business negli affitti. Dunque, “accoglienza” su basi socio-economiche e non grazie alla propagandata “buona politica” di Zaia. Del resto, l’immigrazione non fa certo parte delle 23 materie di trattativa con il governo sull’autonomia veneta…».

La “marcia della dignità”, dopo la morte di Sandrine Bakayoko e di Salif Traorè, all’inizio 2017 non aveva squadernato l’ingestibilità di mega-strutture come Cona?
«Allora, in molti abbiamo sostenuto la “piccola Selma” nel cuore del Veneto. E invocavamo un piano del governo e della Regione che consentisse un’accoglienza diffusa nel territorio degna di questo nome, rispettosa dei diritti: per altro, si traduce anche in integrazione trasparente e sotto controllo. Altrimenti prevale sempre la logica timida, miope, tentennante che affida al “mercato” perfino i percorsi di integrazione (casa, lavoro, scuola dei figli) degli stessi immigrati regolari. Non ci si può illudere di aver risolto il problema, finché persiste la stagione dei grandi ammassamenti: la strategia “emergenziale” crea soltanto sofferenza per i migranti e insieme un impatto sociale che bersaglia le periferie».

È la strategia della paura, politicamente vincente?
«Funziona la legge del qualunquismo, dell’allarmismo, della xenofobia. Alla destra va sempre bene: quando, in casi assai rari, i loro politici risolvono la situazione di conflitto all’insegna del “Prima gli italiani”; molto più spesso perché lasciano incancrenire tutto, soffiando sul fuoco del disagio. La sinistra quando governa non capisce che dovrebbe raddoppiare gli sforzi. Al contrario, scimmiotta la destra rivendicando il merito di più espulsioni o respingimenti. Forse, vale la pena ripartire da Imagine di John Lennon, che evoca gli elementi intorno a cui ricostruire la visione del mondo che non imponga supremazie, di nessun genere, nei confronti di nessuno».

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