60 anni dell'Opera della Provvidenza Sant'Antonio. Tutto il popolo della Provvidenza. Parla mons. Roberto Bevilacqua

Mons. Roberto Bevilacqua ha accompagnato, con la sua presenza, i due terzi dei sessant’anni di vita dell’Opera della Provvidenza, di cui è da 25 anni il direttore. Ha messo piede per la prima volta nella Casa di Sarmeola nel 1981.

60 anni dell'Opera della Provvidenza Sant'Antonio. Tutto il popolo della Provvidenza. Parla mons. Roberto Bevilacqua

Come ricorda il primo suo incontro con il primo direttore, mons. Francesco Frasson?

«Era giugno: da chierico, durante una pausa degli esami di teologia, mi sono presentato per concordare un’esperienza estiva di servizio come medico, visto che prima di entrare in seminario mi ero laureato in medicina e specializzato in psichiatria. Mi era stato detto che mons. Frasson l’anno precedente era stato gravemente malato, per cui nel vescovo mons. Bortignon e nei dirigenti dell’Opera c’era la preoccupazione di trovare qualcuno da affiancargli. Mi ha accolto in modo molto paterno: mi è parsa subito una persona autorevole, di grande spessore, ma anche molto riservata. Da parte mia ho sempre avuto rispetto e deferenza nei suoi confronti: in tanti anni insieme non mi sono mai permesso di dargli del tu, per me era “monsignore”. Non conoscevo granché dell’Opera e a luglio mi sono messo al lavoro cercando di fare del mio meglio; non potevo fare a meno di chiedermi che giudizio mons. Frasson si stesse facendo di me. Quando andai da lui per congedarmi, questa domanda ha trovato una risposta illuminante dei suoi criteri di giudizio e delle qualità che cercava nei suoi collaboratori. Mi ha detto: “Ho visto che vuoi molto bene agli ospiti”. Niente di più, niente di meno. Per me è stata un’apertura di orizzonti grande, come uomo, come professionista e anche come prete. Da allora ho sperato e cercato, pur nei miei limiti, che questo sia il giudizio che mi riserverà anche il Signore quando gli sarò davanti».

Il “voler bene” è lo stile con cui l’Opsa si è sempre rivolta ai suoi “ospiti”. Un compito esigente?

«Sinceramente io considero questa missione pastorale a servizio dell’Opera un privilegio umano e una grazia spirituale. Nella mia esperienza di umanità ho trovato molto vere le parole del cardinal Martini che diceva: “Quando voglio vivere momenti di umanità intensa, incontrare l’uomo nella sua realtà più profonda, senza fronzoli, senza sovrastrutture, vado dai barboni di fratel Ettore”, il prete che li accoglieva nella stazione di Milano. Anche per me, incontrare queste persone, che dal punto di vista della cosiddetta normalità possono apparire problematiche, è sempre stato un evento gioioso, sereno, in cui sento una relazione vera, profonda, piena di affetto sincero, priva di quelle opacità che talvolta condizionano le relazioni».

Questa missione l’avrà messa però di fronte a situazioni umane e familiari dolorose e faticose: quali in particolare?

«I familiari, che magari hanno vissuto anni insieme al congiunto facendone il centro assoluto delle loro attenzioni, non ce lo affidano a cuor leggero; vorrebbero che questi loro sentimenti esclusivi fossero trapiantati qui, mentre noi dobbiamo avere un atteggiamento che tenga presente i diritti e le esigenze di tutti. Questo affetto “rivendicativo” si manifesta in modo acuto in alcuni familiari dei malati di Alzheimer che vorrebbero per i loro cari cose impossibili, anche dal punti di vista terapeutico. Bisogna capirli: è difficile accettare che il coniuge, il genitore che hanno conosciuto nella piena efficienza, sia brutalmente privato delle elementari capacità cognitive. Non è facile elaborare questa specie di lutto».

Un cammino più difficile in una società che sembra non accettare deroghe ai canoni di efficienza fisica, bellezza e prestanza intellettuale...

«Certo, i messaggi che provengono dal nostro contesto culturale vanno in direzione opposta. Credo però che se si riesce a superare le barriere che impediscono al nostro sguardo di vedere nella profondità della persona si riesce a cogliere, anche nei casi di estrema fragilità, valori che tante volte compensano infinitamente questi oscuramenti. Potrei citare tanti esempi: mi viene in mente un uomo, morto da poco, che cominciò a manifestare segni di decadimento cognitivo subito dopo la pensione, 14 anni fa: la moglie è venuta tutti i pomeriggi a trovarlo e a portarlo a passeggio, con una partecipazione profonda che ha colpito tutti».

Il lavoro all’Opera richiede doti umane, e non solo professionali, non comuni e sottopone a sforzi intensi, che hanno bisogno di continue motivazioni. Come li sostenete?

«Il rapporto con gli operatori è sempre stato leale, pur senza dimenticare i diversi ruoli. Certo il loro compito è molto esigente e per sostenerlo abbiamo attivato un’intensa formazione, con programmi annuali e triennali, per tutte le categorie».

L’Opera fin dalla nascita ha avuto la presenza delle suore. Come è cambiata in sessant’anni?

«Fin dall’inizio ci sono state le Elisabettine che hanno organizzato l’assistenza e la sua qualità, in linea con l’indirizzo del vescovo che voleva che l’Opera fosse una grande famiglia; sono state presenti fino a pochi anni fa con oltre quaranta religiose che presiedevano ogni nucleo residenziale e alcuni servizi generali. Nonostante la crisi vocazionale, sono ancora presenti in forma significativa. Per mantenere la nostra profonda ispirazione religiosa, abbiamo coinvolto anche altre congregazioni con il carisma dell’assistenza, inserite come infermiere od operatrici socioassistenziali: una comunità di Clarisse del Kerala e le Francescane di san Luigi Gonzaga del Tamil Nadu».

Altra presenza importante, fin dalle origini, è quella del volontariato. Che spazio ha oggi?

«Attualmente sono 220 i volontari, cui si chiede almeno un anno di servizio, una volta alla settimana; naturalmente tanti sono presenti molto più del minimo, con una preziosa opera di accompagnamento e animazione degli ospiti. Fino agli anni Novanta c’era molto volontariato spontaneo, poi abbiamo sentito la necessità di strutturarlo, con la partnership dell’associazione di volontariato Elisabetta d’Ungheria che, con l’aiuto di una persona incaricata dall’Opsa, accoglie, forma e guida i volontari. Sono presenti anche volontari specializzati come medici specialisti e persone particolarmente esperte in alcuni servizi generali che offrono gratuitamente la loro competenza. C’è quindi il volontariato residenziale di gruppi parrocchiali o associativi di diverse parti del Veneto e d’Italia che restano almeno una settimana per campi di servizio. Non bisogna dimenticare poi il servizio riparativo in alternativa al carcere svolto da persone che hanno subito condanne lievi. Notevole è la frequenza di studenti delle scuole di indirizzo sociale e università che svolgono stage o periodi di alternanza scuola-lavoro. Il contatto diretto con la realtà dell’Opsa porta l’assoluta maggioranza dei volontari a vivere un’esperienza nuova, arricchente, profonda e spesso inattesa».

Un’ultima parola sulle strutture...

«In sessant’anni le abbiamo continuamente aggiornate. Attualmente sono in ristrutturazione due padiglioni per 120 posti letto per adeguarli alle mutate esigenze dei nostri ospiti. I lavori finiranno l’anno prossimo».

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