Monselice in piazza. Stop alla diossina

Oltre duemila ai piedi della Rocca per ribellarsi alla contaminazione. Indice puntato contro la cementeria, ma non ci sono riscontri oggettivi. Mons. Panizzolo: «Ogni comunità ha diritto di determinare il proprio futuro».

Monselice in piazza. Stop alla diossina

Diossina, furani, pcb, ipa. Nomi e sigle oscuri dietro cui si spalanca il caso di inquinamento ambientale che da mesi agita Monselice. Arpav ha dimostrato la presenza di queste sostanze sul Monte Ricco in due distinte rilevazioni di novembre e gennaio. E la città ha deciso di dire basta. Erano almeno duemila venerdì 11 maggio, lungo le vie del centro, fiaccole alla mano, giovani e adulti: semplici cittadini con l’articolo 32 della Costituzione (diritto alla salute) stampato sulle magliette, e rappresentanti delle istituzioni. Gli attivisti del movimento civico Cambiamo aria, che per primi hanno denunciato la situazione. Le mamme delle scuole Cini e Tortorini (primaria e infanzia) sulle pendici del colle, che per settimane hanno visto negata la ricreazione ai loro bimbi: cortile contaminato e tutti barricati in classe. La Giunta comunale al completo, con il sindaco Francesco Lunghi – che allo scoppio della vicenda aveva commentato «tutte bugie, il comitato fa solo danni» – a promettere massimo impegno per una soluzione nell’ultimo anno di mandato che gli rimane. I sindaci del circondario. E poi i partiti: Pd e M5s e Leu hanno schierato consiglieri regionali (Ruzzante, Sinigaglia, Berti) e parlamentari (Zan, Endrizzi). Le associazioni, Acli e scout in testa. La commissione vicariale di pastorale sociale e del lavoro, attiva fin dai tempi del revamping Italcementi del 2012, poi naufragato.

Struggente la denuncia di Monica Buson, portavoce delle mamme, dal palco di piazza Mazzini. «Abbiamo partecipato ai corsi pre-parto, per essere in grado di comprendere fino in fondo la vastità di quello che ci stava succedendo: una vita dentro di noi che cresce, si muove, e poi nasce e ci guarda… e noi ci perdiamo in quello sguardo – ha scandito sostenuta dalle Mamme no Pfas giunte da Montagnana, Brendola e Noventa Vicentina – Siamo state estremamente attente durante l’allattamento: vietati alcuni farmaci e alcuni cibi; vietate le sostanze che potevano creare problemi di salute e compromettere tutti i benefici fisici e psicologici dell’allattamento al seno. E a cosa è servito se poi nell’aria che respiriamo, se nella terra che tocchiamo, se nei cibi che mangiamo, vi è la presenza di diossina e di pcb? Sostanze che superano la placenta e che entrano nel latte materno».

Le domande a cui la popolazione pretende risposta si accavallano: da dove vengono gli inquinanti? Qual è la dimensione della contaminazione? Quali conseguenze per la salute? Francesco Miazzi, del comitato Lasciateci respirare, punta l’indice contro l’immobilità delle istituzioni. «Scoveremo la Provincia e la Regione – argomenta – enti del tutto assenti da questa partita fino a questo momento. Eppure parliamo di un caso di inquinamento che ricade all’interno del Parco regionale dei Colli Euganei, sito di interesse comunitario. Senza dimenticare che è la Provincia a rilasciare l’autorizzazione alla produzione alla Cementeria di Monselice».

Lo stabilimento di via Solana, da luglio scorso parte del gruppo Buzzi Unicem (34 cementerie e 10 mila dipendenti in 13 Paesi nel mondo), è stato il vero convitato di pietra della manifestazione di una settimana fa. «L’industria non può vincere sulla salute», si leggeva negli striscioni. Oppure «Applicare art 19 del Pa, Basta cemento», con chiaro riferimento allo statuto del Parco Colli, datato 1989, che nel suo piano ambientale prevedeva appunto la graduale dismissione degli allora tre cementifici attivi sul territorio. La tesi dei comitati, dopo le due campagne analisi di Arpav di novembre e gennaio, è chiara: «Nelle zone di ricaduta dei fumi della Cementeria di Monselice si è rilevata la presenza di diossine, furani – 21,1 volte rispetto alle zone non esposte – prodotti clorulati e idrocarburi policiclici aromatici: tutte sostanze cancerogene o che interferiscono con il sistema ormonale. Sono prodotte dal cementificio, che le spande da decenni nell’aria che respiriamo e sui terreni attraverso i fumi, bruciando ogni anno non solo circa 74 mila tonnellate di pet coke ma anche rifiuti, la cui combustione – è stato dimostrato – può far aumentare fino a 400 volte il contenuto di cloro».

Nelle scorse settimane, l’azienda ha convocato i giornalisti e dati alla mano ha spiegato le proprie ragioni. «Che la cementeria emetta sostanze nell’aria è innegabile – ha precisato Roberto Bogliolo, responsabile Buzzi per quanto riguarda ecologia, ambiente e sicurezza – ma nel rispetto della legge, per alcuni parametri anche per valori di migliaia di volte entro i limiti. Il potenziale inquinamento dei terreni ha quindi una molteplicità di fonti e non solo lo stabilimento. D’altra parte non esiste al momento alcun documento di Arpav o dell’Asl che indichi noi come causa dell’inquinamento». Per questa ragione l’azienda ha contestato fortemente l’ordinanza del sindaco Francesco Lunghi che impedisce l’utilizzo del prodotto a base di marna, che sta avendo ripercussioni sul ciclo produttivo.

A conferma Buzzi ha presentato i dati di due misurazioni condotte dal laboratorio certificato Ecochimica romana, che parlano di 1,55 e 0,7 picogrammi di diossine emesse a fine febbraio e fine marzo: il limite è 100. In aggiunta, la multinazionale sottolinea come i profili delle diossine rilevate nell’ambiente non corrispondano con quelle emesse dall’impianto e si chiede, nel caso in cui la fonte inquinante fosse la cementeria, come potrebbero due punti di rilevazione lontani un centinaio di metri dare risultati assai diversi, come accaduto proprio nel cortile della scuola Cini.

Questioni su cui è al lavoro Arpav, che proprio in questi giorni sta conducendo nuove analisi. «Abbiamo realizzato 16 prelievi con carotaggi a 10 cm e a un metro di profondità – spiega l’ing. Vincenzo Restaino che segue le operazioni per l’agenzia regionale – due dei quali anche nei pressi della scuola. L’obiettivo: scoprire se questi inquinanti si sono depositati con emissioni in atmosfera o se si trovano all’interno del terreno. La presenza più delicata è quella dei policlorobifenili (pcb), di origine esclusivamente industriale. I risultati? A metà giugno». Restaino sottolinea che negli ultimi due anni e mezzo Arpav ha analizzato tre volte i fumi in uscita dal camino della cementeria. Un’operazione complessa che va concordata con la proprietà. «Per un’analisi in continuo servirebbe un autocampionatore in grado di produrre filtri in autonomia. Un investimento cospicuo».

Tra le accuse a Buzzi Unicem, anche quella di aver bruciato rifiuti al posto del pet coke, per accedere così a un nuovo business, in una fase storica in cui la domanda di cemento, almeno in Italia, langue. Da qui era iniziata la protesta “No-Css” nell’ottobre del 2016, con un’altra imponente manifestazione. «Su Monselice non c’è alcun progetto per l’utilizzo di rifiuti trattati» – smentisce seccamente l’ing. Bogliolo alla Difesa del popolo. Una circostanza motivata proprio dalla sensibilità della popolazione. A Robilante, nel Cuneese, infatti lo stabilimento Buzzi non solo utilizza Css come combustibile, ma è anche inserito nel piano regionale dello smaltimento rifiuti solidi urbani: i quattro gestori del servizio conferiscono direttamente al cementificio i rifiuti trattati.

Sul punto, il sindaco Lunghi è chiaro: «Se emergesse una chiara correlazione tra cementeria e inquinamento faremmo di tutto per farla trasferire. E non solo per le scuole presenti in loco, ma anche per i mille abitanti della zona. Per dirlo però non basteranno i rilievi Arpav. Il percorso è molto più complesso, con l’analisi fumi e dei punti di ricaduta. Per questo stiamo coinvolgendo l’Istituto superiore di sanità: ci vorranno mesi». Nel frattempo dall’Ulss 6 Euganea non arrivano prese di posizioni ufficiali né prescrizioni particolari: solo un diffuso messaggio atto a tranquillizzare la cittadinanza durante un incontro con i genitori dell’istituto comprensivo Zanellato.

Al di là fatti, rimane un interrogativo fondamentale: quale sviluppo immagina per il suo futuro la popolazione di Monselice? «La presenza dell’inquinamento è innegabile. Nessuno mette in dubbio che le emissioni della cementeria rispettino i limiti imposti per legge in sede europea. Tuttavia esiste un problema sulla sede dello stabilimento produttivo – riflette l'arciprete di Monselice e vicario foraneo mons. Sandro Panizzolo – Ormai è condivisa l’opinione che in quella posizione, a ridosso del tessuto urbano e all’interno del Parco, non sia opportuno. Però il diritto al lavoro e gli investimenti dei privati vanno riconosciuti. Occorre unire le istanze e programmare la dismissione salvaguardando i lavoratori. D’altronde ogni comunità ha diritto ad autodeterminarsi e a decidere quale sviluppo ritiene adatto al proprio futuro. Un principio riconosciuto dalla Dottrina sociale della Chiesa, ribadito da papa Francesco anche nella Laudato si’, che anche la cementeria deve riconoscere. Se invece si rimane aggrappati alle norme e ai dati, non rimane che il muro contro muro».

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