Dispersione scolastica, Italia quinta in Europa: media del 13%, picchi al 20%

L'analisi di Carlotta Bellomi (Save the Children), relatrice al Convegno Erickson sull'inclusione scolastica. Il 13,6% di minori italiani vive in povertà assoluta: il quadruplo rispetto a 10 anni fa. “Per contrastare la povertà educativa, bisogna agire a livello macro e micro: servono patti educativi di comunità. Non buttiamo ciò che abbiamo appreso con la pandemia”

Dispersione scolastica, Italia quinta in Europa: media del 13%, picchi al 20%

L'Italia è tra i paesi peggiori in Europa per dispersione scolastica: con una media del 13%, è migliore solo di Spagna, Malta, Romania e Islanda. E' uno dei dati che preoccupano Carlotta Bellomi (Save the Children), che nei prossimi giorni interverrà sul tema al 13° Convegno Erickson sulla qualità dell'inclusione scolastica e sociale (Rimini e streaming, 12-14 novembre). Proprio Save the Children ha infatti recentemente acceso i riflettori su un problema che siamo abituati a collocare altrove, in Paesi lontani e periferici: quello, appunto, della povertà dei minori. Un problema che invece è sempre più europeo, come ha recentemente denunciato proprio Save the Children.

In Italia, “ad oggi vivono 1,3 milioni di minori (ovvero il 13%) in condizione di povertà assoluta, cioè privi dello stretto necessario per condurre una vita dignitosa – ci riferisce Bellomi, anticipandoci alcune delle questioni che toccherà durante il convegno Erickson – Il problema assume una dimensione ancora più preoccupante se abbiamo uno sguardo diacronico: la povertà minorile assoluta è infatti quadruplicata nell'ultimo decennio”.

Qual è l'impatto della povertà sulla vita dei minori?
Povertà assoluta significa, in molti casi, anche povertà educativa: “Grazie alla letteratura scientifica e al lavoro che facciamo nelle periferie e nelle scuole a rischio, sappiamo bene come la povertà materiale incida anche sulla povertà educativa. E questo rischia di tradursi in fenomeni molto gravi: primo, l'incremento della dispersione scolastica cosiddetta esplicita, ovvero l'abbandono degli studi, la cui percentuale oggi è intorno al 13% e ci pone in fondo alle classifiche europee, seguiti solo da Malta, Spagna, Islanda e Romania. In alcune regioni, il tasso di dispersione si avvicina al 20%”.

La seconda possibile conseguenza della povertà minorile “è la perdita degli apprendimenti, la cosiddetta dispersione scolastica implicita: circa il 9% degli studenti (con punte fino al 15%), pur concludendo il ciclo superiore, non raggiunge le competenze minime”. La terza possibile “traduzione” della povertà educativa è il fenomeno dei Neet, ovvero dei giovani tagliati fuori sia dai percorsi di studio e formazione che da quelli lavorativi: nel 2019, erano uno su 5, ovvero circa il 22% in media. Sono dati molto gravi – commenta Bellomi – che ci raccontano una situazione italiana che con il Covid e la conseguente crisi educativa è peggiorata”.

Cosa fare allora?
Occorre agire a livello macro e a livello micro. A livello macro, cioè istituzionale, bisogna ridare centralità all'educazione per la ripresa del paese, contrastare la disomogenietà territoriale e alzare la qualità dell'offerta formativa, investendo su nidi, tempo pieno, architetture scolastiche, aperture pomeridiane delle scuole come presidi sociali, formazione dei docenti”.

A livello micro, invece, cosa possono fare le singole scuole e i singoli docenti?
Devono agire a più livelli. Primo, l'apprendimento: a fronte dei dati sulla dispersione implicita, bisogna ripensare modalità d'insegnamento, nella consapevolezza che serve un recupero delle competenze indebolite con il Covid. E' importante rileggere esperienza di ultimi due anni e capire se le pratiche sperimentate con la pandemia possano arricchire la didattica tradizionale: penso soprattutto alle attività di 'outdoor education', alla didattica digitale, ai piccoli gruppi. Insomma, non si deve buttare via l'esperienza fatta, ma rileggerla e valorizzarla per il recupero degli apprendimenti. Il secondo punto fondamentale è il benessere psicofisico: dopo due anni difficili, è necessario mettere al centro il benessere dei ragazzi, fare in modo che possano stare bene a scuola e che possano vedere nei docenti un punto di riferimento. Il terzo punto è la cittadinanza attiva: nel momento in cui la scuola sta cambiando e deve cambiare, fondamentale è che tutti gli attori siano coinvolti, soprattutto chi la vive quotidianamente. I docenti devono coinvolgere attivamente gli studenti e i genitori per immaginare insieme una scuola che esca fuori dalle sue mura. Sono questi i patti educativi di comunità, strumento importante per coinvolgere i vari attori sociali e le migliori risorse educative del territorio, con la scuola nel ruolo di regia e guida per immaginare e costruire un territorio che sia il più possibile accogliente, interessante e capace di offrire risorse a tutti i ragazzi, a partire dai più fragili. La sfida è rilanciare l'impegno educativo di questo strumento, che è tornato utile soprattutto con la pandemia, anche oltre la pandemia.
A che punto siamo nella realizzazione di questi patti educativi? La scuola e il terzo settore, per esempio, hanno imparato a lavorare insieme?
Lavoro si è fatto e altro ce n'è da fare, da ambo le parti: occorre individuare un linguaggio comune e valorizzare le reciproche competenze: il lavoro di rete scuola – territorio non è oggi un'esperienza consolidata, ma da consolidare, in una sinergia che non sia di delega delle fragilità al terzo settore, ma di reale collaborazione e integrazione.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)