In carcere, in ospedale, a scuola: letture ad alta voce nei contesti di disagio

Intervista ad Antonio Ferrara, educatore, illustratore, scrittore, che al Salone di Torino presenta il suo ultimo libro: la storia di Falcone raccontata ai ragazzi. “Nelle carceri di massima sicurezza, con i libri e la scrittura aiutiamo a confrontarsi con l'errore e a far emergere le emozioni”

In carcere, in ospedale, a scuola: letture ad alta voce nei contesti di disagio

“Leggere è un modo per non sentirsi soli e per scoprirsi solidali”: ne è convinto Antonio Ferrara, illustratore e scrittore ma prima ancora educatore, autore di libri per ragazzi di successo, sempre più letti “ad alta voce” nelle scuole, nelle librerie e in altri contesti. Contesti di disagio, soprattutto, perché è proprio qui che la lettura ad alta voce riserva “le più grandi sorprese”.

Mentre parla, Antonio Ferrara è su un treno che lo porta a Torino, dove presenta, al Salone, il suo ultimo libro, “Papere contro la mafia. Una storia di Giovanni Falcone” (editore Interlinea). Un libro per ragazzi, naturalmente, perché è a loro che Ferrara rivolge il proprio sguardo e la propria voce. “Ma i libri per ragazzi funzionano con tutti – assicura – quando si vogliono tirare fuori le emozioni. Riescono a far piangere, ridere e abbracciare perfino i detenuti di un carcere di massima sicurezza”.

Proprio in questi giorni, tra un progetto e l'altro, Antonio Ferrara e sua moglie Marianna Cappelli, stanno riorganizzando un laboratorio di lettura e illustrazione per i detenuti del carcere di Novara: “Un laboratorio partito cinque anni fa, poi interrotto. Obiettivo: far gestire il proprio errore. Consegniamo ai detenuti un foglio, con una serie di consegne: devono fare un disegno, ma non possono usare gomma né matite. Se sbagliano, insomma, non possono correggere, né avere un secondo foglio. E se non sbagliano, passo io a rovinare il loro disegno con un segno tracciato con un pennarello indelebile. Perché gli sbagli si possono fare anche per colpa degli altri... Chiediamo ai partecipanti di lavorare con quell'errore, di integrarlo nel disegno, di trovare una soluzione. E poi di scrivere una riflessione su quell'esperienza. Un modo per farli riflettere su cosa fare con l'errore commesso, da loro o da altri, dal momento che il foglio è uno solo, ma anche su quello stesso foglio, si può in qualche modo rimediare”.

E' questo uno dei tanti laboratori che Ferrara e Cappelli portano dentro il carcere: “Laboratori sempre accompagnati dalla lettura ad alta voce di brani di libri per ragazzi, che consideriamo salvifici. Soprattutto chi è dentro per pedofilia ha spesso l'età emotiva e mentale di un bambino ed è facile che, ascoltando una storia per ragazzi, si commuova e si emozioni fino a piangere. Questo è il grande potere della lettura: tirare fuori le emozioni. Ma soprattutto, siamo convinti che scrittura e lettura creino solidarietà: come diceva Scott Fitzgerald, il bello della letteratura è che quando leggi scopri che non sei solo, che appartieni a qualcosa. Ecco, la lettura ad alta voce è una solidarietà esasperata, moltiplicata: tutti condividiamo la stessa emozione nello stesso momento e il gruppo diventa più coeso e solidale, ciascuno si scopre piacevolmente fragile, senza sentirsi giudicato. I libri e la scrittura aiutano il dolore a essere nominato e venir fuori: se non si impara a nominare anche le esperienze più dolorose, allora quel dolore implode, fa ammalare, in carcere spesso fa suicidare. Se invece riesci a dirlo o ancor meglio a scriverlo, quel dolore non è più una pietra sul petto, ma una pietra adagiata sul foglio”.

Leggere ad alta voce in carcere

Con i loro laboratori di scrittura e lettura, Antonio e Marianna sono entrati in diversi carceri: da Lucera a Pescara, da Secondigliano a Novara, da Cuneo a Pesaro, tornando in alcuni anche due o tre volte. A chiamarli, sono soprattutto gli educatori, o le associazioni di volontariato del territorio. “A Pesaro per la prima volta abbiamo incontrato i detenuti accusati di pedofilia e per ben due volte una guardia carceraria si era tolta la vita proprio qualche notte prima. Questo ci dice quanto quel contesto sia complesso e fragile e quanto ci sia bisogno di sostegno e formazione anche per chi lavora al suo interno: proviamo a coinvolgere anche le guardie, nei nostri laboratori, sapendo quanto ne avrebbero bisogno, per tirar fuori il male che vivono ogni giorno, ma difficilmente si lasciano coinvolgere. Gli educatori invece sono collaborativi, però li trovo spesso rassegnati, io scherzano li chiamo 'sfascisti', perché di fronte alle nostre proposte replicano spesso che 'non si può fare, qui mica siamo fuori'. Ma io che arrivo dall'esterno, devo portare un po' di normalità, per abbattere quei maledetti mura. Non solo i muri del carcere, ma anche i muri dei detenuti: quelle difese che innalzano per diffidenza. Una volta un detenuto, all'inizio di un laboratorio, vedendo che lavoravamo sulle loro emozioni mi ha detto.: 'Tu sei un poliziotto', sospettando che fosse una trappola per scoprire dettagli sul suo reato. Poi, una volta che prendono fiducia, ci bombardano di richieste e noi dobbiamo capire e ricordarci che non siamo onnipotenti, anzi abbiamo un margine di manovra limitatissimo. Hanno una dote, però, i detenuti, che mi sorprende ogni volta: la grande pazienza, una pazienza forzata, fatte di ore e giorni senza nulla. Una pazienza che, con il nostro aiuto, possono impegnare. Molti non leggono, non scrivono, non suonano, fanno solo palestra tutti i giorni, lontani, separati, nascosti al resto del mondo: ci sono carceri in cui attraversiamo undici cancelli, prima di riuscire a entrare”.

Proprio la lettura e la scrittura possono essere allora, all'interno di un contesto così oscuro e silenzioso, uno strumento di rinascita, di riconquista dei diritti e della dignità, di riappropriazione delle proprie emozioni. “I risultati sono sempre incredibili. Un detenuto, non giovanissimo, mi ha detto un giorno: 'Tu vuoi lavorare con le nostre emozioni, ma io le emozioni le ho lasciate all'entrata, insieme ai miei oggetti personali, perché qui non si possono usare. Quando esco, mi riprendo portafogli, documenti ed emozioni'. Allora è intervenuto un altro detenuto, un giovane albanese, dicendo: 'Eh no, non puoi lasciare all'ingresso le emozioni per anni: quando uscirai, non ci saranno più'. Io sono rimasto ad ascoltarli e poi ho fatto notare loro come stessero iniziando a scrivere un romanzo, proprio parlando delle proprie emozioni. E così, piano piano, iniziano a parlare di ciò che hanno fatto, di come vivono la detenzione, del senso d'ingiustizia che tanti provano, di fronte alla giustizia che li ha condannati. Recentemente un giovane detenuto, parlando dell'omicidio che ha commesso, ha detto: 'Chi muore ha sempre ragione, chi resta ha torto. Ma io non potevo fare altrimenti'. E' il suo sentire, che tramite la scrittura e la lettura ha trovato un modo per venir fuori ”.

Nella scuola e in ospedale

Ma se il carcere è un contesto estremo di disagio, c'è un altro contesto in cui la lettura e la scrittura sono particolarmente efficaci nella gestione di un disagio forse meno lampante, ma diffuso e complesso: la scuola. “Due giorni fa, per esempio, eravamo a Grosseto, in una scuola media. Le docenti che ci avevano invitato ci avevano parlato di due ragazzine terribili, provocatorie, aggressive. Abbiamo proposto in quella classe il nostro laboratorio dal titolo 'Tutti pensano che... Soltanto io so che...”. Invitiamo i ragazzi a scrivere delle riflessioni su questo spunto, in 10 minuti durante i quali io li disturbo fastidiosamente, per distrarli: in questo modo, si rendono conto di quello che scrivono solo mentre lo leggono ad alta voce. E' quello che chiamo lo stile di conduzione ludico-persecutorio e che ritengo fondamentale per la riuscita del laboratorio. Ogni volta, escono riflessioni inedite, i ragazzi fanno grandi scoperte su di sé e sugli altri e, condividendole, diventano più coesi e solidali. Anche questa volta, con le due 'ragazze terribili', ha funzionato. Noi siamo usciti dalla classe, ma ora le insegnanti hanno in mano un patrimonio che sapranno valorizzare”.

E poi, c'è il disagio che fa male, quello che a volte uccide: la malattia. Negli ospedali, la lettura ad alta voce assume un valore quasi terapeutico: “Tramite un maestro di Cagliari, siamo entrati nell'ospedale microcitemico, dove incontriamo piccoli e giovani pazienti, a volte in fase terminale. Un giorno, siamo andati nella stanza di un ragazzone di 15 anni: era sul letto, col viso rivolto verso il muro, la mamma seduta accanto. Credo gli rimanessero pochi giorni, forse poche ore. Abbiamo chiesto il permesso di leggere qualcosa ad altra voce, la mamma ha annuito, lui non ha fatto un cenno, come se non ci avesse sentito. Allora ho iniziato a sfogliare il libro e a ridere a crepapelle. Dopo qualche istante, incuriosito, si è voltato verso di me e mi ha chiesto di leggere ad alta voce: a quel punto ha sorriso e ha iniziato ad ascoltare. Non lo abbiamo più visto, ma sono sicuro che quei minuti di lettura abbiano alleggerito almeno un poco il peso che sentiva”.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)