La guerra dei padri, le ferite dei figli. “La tristezza, nella Festa del papà”

Intervista allo psicoterapeuta Alberto Pellai, che nel suo ultimo libro, “La vita accade”, racconta la nascita di un padre e la scoperta “dell'importanza e della bellezza del proprio ruolo. Ora, non c'è niente di più brutto che sapere il proprio papà in trincea e con le armi. Proteggiamo i nostri figli dalla mitizzazione del fucile: la difesa del territorio con le armi toccava ai cavernicoli per sopravvivere. Noi viviamo. Ai bambini parliamo dei costruttori di pace”

La guerra dei padri, le ferite dei figli. “La tristezza, nella Festa del papà”

Noi uomini ci stiamo trasformando: abbiamo una consapevolezza dell'importanza del nostro ruolo nella vita dei nostri figli, ma anche la bellezza di poter abitare la vita in questa connessione relazionale ed emotiva, che i nostri padri non hanno avuto: è una scoperta, una conquista. E la guerra segna, in questo senso, un drammatico passo indietro”. Lo psicoterapeuta Alberto Pellai ha dedicato alla figura del padre il suo ultimo libro, “La vita accade. Una storia che fa luce sulle emozioni maschili” (Mondadori, 2022), pubblicato pochi giorni fa. E' a lui che chiediamo, alla vigilia di una Festa del papà che “quest'anno ci rattrista enormemente, perché la guerra ci riporta alla condizione di cavernicoli, quando il maschio doveva combattere, fuori dalla caverna, per difendere il territorio. Oggi, come uomini e come padri, dovremmo farci promotori di pace, perché la guerra lascerà ferite enormi su questi figli che lasciano i padri in trincea, con le armi in mano”.

Il suo libro racconta la nascita di un padre: un romanzo, ma anche tante storie vere, giusto?
Sì, Paolo, il protagonista, e gli altri quattro uomini che incontriamo nel romanzo, sono figure che nella stanza dello psicoterapeuta arrivano, perché soffrono troppo, perché non hanno speranza, perché si rendono conto che non sono riusciti a costruire quello che avrebbero dovuto. La storia si svolge nella notte in cui Paolo diventa padre, ma mentre succede questo, si aprono tutte le finestre sulla sua storia di vita. Una storia piena di dolore, perché Paolo da bambino ha vissuto in una famiglia in cui ha assistito a drammatici episodi di violenza, è stato affidato ad altre famiglie, ad altri uomini... Venendo da un passato pieno di fatica, Paolo dentro alla storia d'amore che vive, riesce a mettere in atto un cambiamento radicale, ponendo una distanza tra la storia da cui viene e la storia che scrive come protagonista. Paolo è la metafora di tanti nuovi padri, che stanno producendo una trasformazione rispetto all'analfabetismo emotivo che connota il percorso umano di molti maschi: maschi che non possono permettersi la tristezza, né la paura e quando si trovano in difficoltà non sanno chiedere aiuto, ma si trovano intrappolati in dinamiche che esplodono in violenza, perché la rabbia è l'unica emozione codificata nel lignaggio maschile. Il libro vuole far vedere la “scatola nera” che è nascosta nel mondo del maschio, ma soprattutto raccontare quel tentativo di trasformazione della cultura di genere: oggi abbiamo, come maschi e come padri, una consapevolezza maggiore di cosa significhi rimanere connessi e disponibili emotivamente nei confronti dei nostri figli. E ci siamo resi conto che essere buoni padri per i nostri figli significa essere persone migliori. Questa trasformazione corrisponde anche a una trasformazione nella società: fino a qualche anno fa, il successo di un uomo si esprimeva nel raggiungimento di uno standard professionale, tanto che tanti uomini si presentano dicendo il lavoro che fanno. Ora, abbiamo la possibilità di acquisire un'identità a 360 gradi, anche grazie alle trasformazioni avvenute nel femminile: oggi diventiamo genitori insieme a compagne che hanno pari diritti e opportunità.

La pandemia, con i lockdown, lo smartworking, le quarantene, ha favorito questo processo?
Indubbiamente sì: siamo stati costretti a una genitorialità condivisa e una conciliazione lavoro-famiglia, che ha attivato e rafforzato, nel padre, non solo la consapevolezza del proprio ruolo nella vita del figlio - cosa che non ha sperimentato quando era figlio - ma anche la bellezza di poter abitare la vita in questa completezza sul piano emotivo e relazionale.

La guerra, però, ci sta nuovamente mostrando padri lontani dalle famiglie, che devono o vogliono difendere la patria, accettando così di separarsi da compagne e figli. Cosa ne pensa?
Come uomini, padri e cittadini, quello che sta accadendo deve riempirci di tristezza, in questa festa del papà: vediamo un mondo dilaniato dalla cosa peggiore che hanno fatto i maschi, cioè la guerra, che è distruzione, separazione, costruzione di fragilità. Nella famiglia che vive direttamente questo dramma, si produce una quantità di dolore che avevamo vissuto con le guerre mondiali, le quali hanno lasciato un' impronta enorme di generazione in generazione. Com'è possibile che, con tutta la fragilità che abbiamo sperimentato in tutto il mondo a causa della pandemia, appena abbiamo ritirato su la testa ci troviamo a vivere la guerra? Dovremo diventare promotori di cultura di pace e non di violenza, soprattutto nella prospettiva di padri, perché la pace soltanto ci permette di vivere accanto ai nostri figli, diventando per loro modelli verso la costruzione di un essere umano evoluto.

Come padre e come psicoterapeuta, quali pensa siano gli effetti di questa guerra sui bambini che la vivono, direttamente o indirettamente?
Non c'è niente di peggio che sapere che tuo papà è andato a combattere, si trova in trincea con un'arma in mano e rischia di morire. Questo è un attentato profondo ai bisogni di vita di un bambino, che sono protezione, sicurezza, sapere che il mondo è un luogo di pace. I bambini ucraini vivono una traumatizzazione diretta, i nostri figli una traumatizzazione indiretta, perché sono continuamente esposti a immagini e notizie di guerra. E poi, c'è tutta una narrazione della guerra rivolta ai bambini: l'abbiamo vista in Russia, con i cartoni animati, ma la vediamo anche nel racconto dell'eroe che difende la sua terra dall'invasore. La foto della bambina con il lecca lecca e il fucile è l'emblema di una narrazione che prova a dare significati a una situazione che non dovrebbe avere senso.

C'è il rischio che i bambini subiscano il “fascino” dell'eroe, della guerra, delle armi?
Sì, c'è il pericolo che venga magnificata e glorificata l'idea che muoversi con le armi per difendere il proprio territorio di vita possa essere necessario e perfino positivo. Ma questa era la posizione del cavernicolo, che doveva uscire dalla grotta e difendersi dagli attacchi per sopravvivere. Quando abbiamo imparato a vivere, abbiamo capito che potevamo muoverci senza dover presidiare il diritto alla sopravvivenza. Ora, tornare alla mitizzazione del fucile come strumento per l'affermazione del diritto alla sovranità territoriale è un passo indietro, senza vincitori né vinti.
Come possiamo proteggere i nostri figli da questo “passo indietro”?
Parlando dei costruttori di pace, più che degli eroi di guerra: narrare le storie dei premi Nobel per la pace, raccontare le tante persone che, anche in tempo di guerra, continuano a costruire la pace, portando nel mondo il contrario delle armi.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)