La musica rende liberi. Due donne, due violini, per aprire squarci di speranza nel buio della guerra

La musica unisce i perseguitati nella guerra di ieri e di oggi.

La musica rende liberi. Due donne, due violini, per aprire squarci di speranza nel buio della guerra

Torino, settembre 1937. “Sto cercando un violino da regalare a mia figlia per i suoi 16 anni”. Edgardo Levy è un uomo alto e distinto. “Penso di avere quello che può fare per lei”. Il liutaio va nel retrobottega e ne esce con un astuccio, che poggia sul bancone. Lo apre. Al suo interno un gioiello, realizzato nella seconda metà dell’Ottocento di Francia dal celebre liutaio Charles Jean Baptiste Collin-Mezin. È un violino particolare. Sul retro spicca una stella di David in madreperla. Ma non solo. È qualche millimetro più largo rispetto al solito e ciò rende le sue note più profonde, più adatte alla musica klezmer, tanto struggente quanto carica di armonici. Il liutaio lo prova e Levy capisce che quello è lo strumento giusto per Eva Maria, la sua piccola, che tutti chiamano da sempre Cicci. Edgardo vuole che quel violino sia ancora più unico e prezioso. Chiede, quindi, al liutaio di aggiungergli un filetto di losanghe di madreperla.

Quando la mattina del 13 settembre Eva Maria apre il suo regalo rimane letteralmente a bocca aperta. Corre a ringraziare i genitori e poi, una volta teso l’archetto, non senza emozione inizia a suonare. Eva Maria – insieme al fratello Enzo, che è un anno più giovane di lei – l’ha ereditata dalla madre Egle Segré, che suona il pianoforte. A Verona, dove la famiglia aveva vissuto fino a pochi mesi prima, Eva Maria frequentava il liceo classico Maffei e prendeva lezioni di musica. Ora che ha un violino tutto suo, può continuare a studiare e ad esercitarsi anche a Torino.

Di lì a pochi mesi vengono promulgate le leggi razziali e per la famiglia Levy – così come per milioni di altre famiglie ebree – inizia un lungo calvario. Ma questo non impedisce a Eva Maria di suonare il suo violino. Le sue note la abbracciano e la rassicurano, la fanno sperare nel ritorno alla normalità. E quella musica apre squarci di speranza nel presente anche di chi l’ascolta.

Nella speranza di riuscire a scappare in Svizzera, la famiglia Levy si sposta, nel settembre 1943, da Torino a Tradate e viene temporaneamente ospitata a Villa Truffini dalla famgilia Sternfeld (italianizzati in Campostella). Ma vengono denunciati. È il 12 novembre quando i nazisti fanno irruzione a Villa Truffini e arrestano la madre Egle e i due figli, Enzo e Eva Maria. I soldati non lasciano loro molto tempo, ma la ragazza, prima di lasciare la casa, riesce a prendere con sé il suo violino. Il padre Edgardo, sfugge alla cattura, avvisato dalla sua segretaria e aiutato dal capostazione di Tradate, che lo fece salire su un altro treno.

Il resto della famiglia Segré-Levy finisce nel carcere di San Vittore, dove vi rimane per poco meno di un mese. Il 6 dicembre 1943 vengono presi, insieme ad altri prigionieri, e portati alla stazione centrale di Milano. Binario 21. Vengono fatti salire sul primo convoglio diretto al campo di concentramento di Auschwitz. Eva Maria stringe forte a sé il suo violino. Il viaggio dura sei giorni.

L’11 dicembre, all’arrivo ad Auschwitz, la madre viene esaminata e mandata subito nelle camere a gas, mentre i figli Enzo ed Eva Maria sono smistati nei campi. Enzo viene inviato al campo di lavoro di Monowitz, mentre Eva Maria finisce a Birkenau, insieme al suo violino. Alma Rosé, la nipote di Gustav Mahler – deportata anche lei dai nazisti e che dirige l’orchestra femminile del campo – le fa un esame per capire se è veramente una violinista. Eva Maria supera la prova ed entra a far parte dell’orchestra. Inizia così a suonare il suo violino per i nazisti. Finché il violino non si rompe. E la musica finisce. Così come la vita di Eva Maria. Destinata, insieme ad altre giovani prigioniere, nella casa chiusa allestita dai soldati del campo, si getta dalla finestra e muore il 6 giugno 1944.

Il fratello Enzo riesce a resistere fino al gennaio 1945, quando i militari dell’Armata Rossa liberano il campo. Prima di ripartire per l’Italia, ritrova fortunosamente il violino della sorella – che era in pessime condizioni – tra gli oggetti sequestrati dai tedeschi, lo prende con sé e lo riporta a casa. La cassa armonica era spaccata in due. Enzo lo porta da un liutaio per farlo aggiustare. Le mani esperte dell’artigiano rimettono lo strumento a nuovo. Ma Enzo non suonerà mai quel violino. Troppo grande per lui il peso di essere sopravvissuto alla sorella. Si suicida nel 1958.

Il violino finisce nel negozio di un antiquario, dove nel 2014 lo scopre Carlo Alberto Carutti, imprenditore e scrittore, musicista e musicofilo, scomparso lo scorso 26 febbraio all’età di 98 anni. Carutti ne rimane subito affascinato. Osservando bene lo strumento, scopre che all’interno dello strumento è nascosto un cartiglio sul quale, a matita, è riprodotta l’insegna del campo di Auschwitz, ma la tragica scritta “Die Arbeit macht frei” è sostituita dalle parole “Der Musik macht frei” (la musica rende liberi). Sotto un pentagramma con sei battute di un canone inverso, in cui le note sembrano tanti soldati in marcia. E, tra le note, seminascosto il numero 168007, che Carutti scoprirà essere il numero di matricola di Enzo Levy (non troppo lontano dal 170000 di Primo Levi).

Inizia così un lungo lavoro di ricostruzione della storia del violino e della sua proprietaria, che culmina nel 2019 Carutti, quando conosce una testimone diretta della vicenda della famiglia Levy, Giovanna Campostella.

Nei giorni scorsi la storia del “violino della Shoah” è arrivata anche sul piccolo schermo. A raccontarla, sul palco di Italia’s Got Talent, è stata Alessandra Sonia Romano, violinista a cui da anni Carutti ha affidato il violino, affinché le sue note e la sua storia possano risuonare ancora. “Ho deciso di partecipare ad Italia’s got talent con il violino della Shoah perché ho sentito che era il momento di portare questo messaggio ad una platea più ampia. Con il covid non è stato più possibile girare nelle scuole e non mi bastava fare concerti, con questo messaggio ho voluto raggiungere il cuore di tutti”, scrive la violinista milanese sulla sua pagina Fb. Il video della sua esibizione ha raccolto oltre 12.400 like ed è stato condiviso più di tremila volte.

E decine di migliaia di like e di condivisioni, in questi giorni, stanno raccogliendo i video, postati su Ig, da un’altra violinista, a poco più di 2.100 chilometri da noi. Sono i video di Vera Lytovchenko, violinista di Kharkov. La sua famiglia ha origini ucraine, ma lei parla russo. Ha trasformato lo scantinato del suo palazzo – dove si rifugia insieme agli altri abitanti della casa per sfuggire alle bombe – in una sala da concerto. Con la speranza di alleviare, anche solo per qualche minuto, il dolore di chi si trova, come lei, sotto una pioggia di bombe. I suoi video hanno fatto il giro del mondo e sono stati rilanciati anche sui profili social del ministero degli esteri ucraino. “Studio violino da quando ho 7 anni, ho studiato al Conservatorio e ora faccio parte dell’orchestra del teatro di Kharkov e insegno in un’accademia di musica. La musica ci aiuta ad andare avanti, ci sostiene. Lo faccio per me e per i miei vicini. La musica per alcuni istanti ci impedisce di pensare alle bombe. Non mi interessa diventare famosa o ricca. Faccio tutto questo per darmi forza, per dare forza al mio popolo e perché prego che le armi smettano di sparare”.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Sir