Ludopatia, "il gioco è stato per 35 anni il mio unico padrone"

La testimonianza di Paolo: una vita persa nel gioco d'azzardo e poi la svolta, che dura da 10 anni: "Non lasciateci da soli, il nostro recupero dipende da questo"

Ludopatia, "il gioco è stato per 35 anni il mio unico padrone"

BOLOGNA - "E' questo che chiediamo: fidatevi di noi. Perché il nostro recupero è non essere più soli". L'appello, accorato, arriva da Paolo Marchetta, rappresentante dell'associazione giocatori anomimi dell'Emilia-Romagna, che ieri mattina a Bologna ha portato la sua testimonianza a un convegno organizzato dall'Osservatorio dipendenze dell'Ausl di Bologna sulla ludopatia. "Frequento questo gruppo da 11 anni- spiega il signor Paolo - fino a diverso tempo fa eravamo carne da macello. Se venivamo riconosciuti come giocatori, eravamo additati da tutti. Oggi le cose sono cambiate, ma c'è ancora molto da fare. L'Emilia-Romagna e' un'isola abbastanza felice, perché ci si da' da fare. Ma non e' così dappertutto". Marchetta racconta di aver iniziato a giocare "nel giugno 1973. Ero poco più che ventenne e non avevo mai avuto problemi. Ero ancora sano, poi ho deciso di aprire quella porta ed e' stata la disgrazia della mia vita".

Il gioco, scandisce Paolo, "e' stato il mio unico padrone per 35 anni. Ho avuto una brutta vita e ne ho fatte di tutti i colori, cose lecite e non. Tranne l'omicidio, ho fatto di tutto per poter giocare. L'inferno e' stato casa mia". Marchetta preferisce non scendere nei dettagli, ma le sue parole calamitano comunque la platea, che lo ascolta in silenzio. "Giocare e' una parola bella- dice- il gioco e' una bella cosa. Il mio invece era voler scommettere, su qualunque cosa e su chiunque, purché ci fosse in palio una vincita. E quando perdi tutto, ti entra in testa il concetto di recupero. Vuoi recuperare, ma il recupero non esiste. C'e' solo il vuoto". Paolo racconta di essere andato "in tutte le chiese di Bologna, pregando perché qualcuno o qualcosa mi aiutasse a smettere. Ma quando uscivo, tornavo a giocare".

Negli anni del gioco "ho perso la salute mentale e anche fisica- racconta ancora Paolo- ho avuto due infarti. E ho perso la mia vita affettiva. Ho eroso tutto il patrimonio consistente dei miei genitori, non avevo più famiglia ne' amici. Ero in totale solitudine". Poi, la svolta. "All'inizio sono stato costretto a entrare nel gruppo di aiuto- non fa fatica ad ammettere- sono stato preso dal bordo del marciapiede. Mia moglie mi ha chiesto di fare un ultimo tentativo e per farla contenta sono andato. Ma le prime volte pensavo che fossero dei cretini, non capivo che le loro storie erano anche la mia storia. Ci ho messo tanto, andavo al gruppo e intanto continuavo a giocare. E non avendo più soldi, facevo come nei film: diventavo cattivo, mi rivolgevo ai criminali. Ed erano pistole puntate in testa se non pagavi in tempo". Piano piano, pero', "ascoltando chi stava male come me ho iniziato a capire- spiega Paolo- ma nei primi due anni senza giocare era il delirio: ogni volta che avevo del tempo libero, mi chiudevo in camera".

Oggi, sorride, "sono 10 anni e cinque mesi che non gioco più. E per uno come me significa scalare l'Everest 10 volte". Poi, con amarezza e la voce che si spezza, avverte: "I medici parlano sempre di guarire, ma qui non si guarisce. Io non guarirò mai. Sono un giocatore e rimango un ludopatico, in astinenza. Ma quando sento Daniele raccontarmi che non ha ancora il coraggio di dire a suo figlio che stavano in casa con le candele perché si era giocato tutti i soldi; o quando sento Marco dirmi che sua figlia ha scoperto che ha rubato lui i 10.000 euro regalati per il suo matrimonio ma lo ha comunque perdonato, ecco: e' per questo che ho smesso. E' per queste sofferenze di persone che non c'entrano". E conclude: "Al Sert ci andiamo perché i professionisti si fidano di noi. E' questo che chiediamo: fidatevi di noi. Il nostro recupero è non è essere più soli".

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)