Roma, la segregazione nei campi rom: "Difficile uscirne davvero"

Studio Asy(s)lum di Associazione 21 luglio: gli insediamenti voluti e costruiti dalle amministrazioni pubbliche producono l’esclusione sociale di coloro che li abitano. Una condizione da cui è difficile uscire perché le persone provano ansia, preoccupazione, senso di inadeguatezza: "Il campo te lo porti dentro"

Roma, la segregazione nei campi rom: "Difficile uscirne davvero"

I cosiddetti “campi rom” allestiti a Roma dal Campidoglio dal 1994 al 2018 sono paragonabili a “slum monoetnici” che pongono gli individui che li abitano in una condizione di esclusione sociale. A sostenerlo è lo studio Asy(s)lum di Associazione 21 luglio, frutto di una ricerca condotta da Claudia Aglietti, Federico Bonadonna, Carlo Stasolla e Angela Tullio Cataldo.

Si tratta di "luoghi espressione di quell’urbanistica del disprezzo nei quali confinare, emarginare, allontanare dalla stessa vista della maggioranza degli abitanti delle città - spiega il professor Antonio Ciniero, docente di Sociologia delle migrazioni dell’Università del Salento -, porzioni di umanità indesiderata, nella gran parte dei casi vittima di povertà e precarietà esistenziale, molte volte costretta a lasciare i propri paesi e le proprie abitazioni a causa di conflitti bellici, come nel caso dei rom che dall’ex-Jugoslavia sono arrivati in Italia tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta”.

Lo studioAsy(s)lum si ispira alle riflessioni di Erving Goffman che, nel suo celebre trattato sulle “istituzioni totali” del 1961, descriveva i meccanismi dell'esclusione e di violenza che avvenivano in precisi luoghi chiusi ad alto tasso di stigmatizzazione come manicomi, cliniche, ghetti e carceri. I malati psichiatrici, per esempio, erano considerati “persone che dovevano essere allontanate dal corpo sociale - spiega ancora Ciniero– messe all’interno di luoghi dai quali non poter uscire e non poter turbare la società”.

Così come gli ex manicomi, i “campi rom” si trovano ai margini delle città, con reticolati spesso arrugginiti che ne delimitano o delimitavano il perimetro, roulotte, container o baracche semi distrutte, a volte militari, vigili urbani o vigilantes privati all’entrata per controllare gli accessi. Un’istituzione che dovrebbe essere temporanea, ma che invece è diventata permanente nel corso degli anni. Secondo Ciniero, infatti, “I diversi campi rom allestiti nel corso degli anni dalle amministrazioni comunali italiane, da un punto di vista simbolico, richiamano ambiti di significati precari e provvisori, che sottintendono una collocazione a distanza che avvia e struttura processi di segregazione, allontanamento e pratiche di controllo. Il campo infatti è, al tempo stesso, luogo in cui vivere e “contenitore istituzionale””.

L’impatto di questa segregazione prosegue anche quando si tenta di uscirne: i rom vivono sentimenti di ansia, preoccupazione, senso di inadeguatezza e fenomeni come la disculturazione e stigmatizzazione. “Il campo te lo porti dentro”, questa frase è stata pronunciata diverse volte agli operatori di Associazione 21 luglio. “La prospettiva dell’uscita da un “villaggio” pone l’individuo davanti al dubbio di non essere in grado di fronteggiare la quotidianità all’esterno, - si legge in Asy(s)lum –  fino ad allora ignota. Può trattarsi di competenze basilari, come pagare una bolletta, ma anche di aspetti complessi, che includono la ricerca di un lavoro e i rapporti con il vicinato. Come emerge dalle testimonianze, la preoccupazione più forte – ciò che Goffman individua come la conseguenza dell’essere stati internati che più perdura nel tempo – riguarda infatti il rapporto con l’altro. La paura di scontrarsi con il pregiudizio nei propri confronti conduce gli individui a mettere in atto strategie comunicative basate, almeno inizialmente, sulla menzogna e sull’occultamento di parte della propria storia. In alcuni casi, tali strategie si rivelano inutili, tanto da ritrovarsi comunque vittime di atti di razzismo, in casa o nel mondo, talvolta inaccessibile, del lavoro”.

Una situazione più volte denunciata a livello nazionale che internazionale, il superamento degli insediamenti monoetnici per i rom è uno degli obiettivi che si è prefissata la Strategia Italiana per l’inclusione dei rom, sinti e caminanti emanata nel 2012. “Lavorare per superare i campi, - conclude il professore di Sociologia delle Migrazioni – lavorare per supportare i singoli e le famiglie che autonomamente provano a lasciare i campi per vivere in abitazioni, richiede la necessità di programmare percorsi che facilitino le forme di deistituzionalizzazione”.

Camilla Canale

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)