Soccorso psicologico per i migranti, "un primo aiuto umano"

Intervista a Ester Russo psicologa di Medici Senza Frontiere: "Vergognoso e inaccettabile che si debba continuare a morire in mare". L'équipe del Primo Soccorso Psicologi in due mesi ha effettuato quattro interventi in Sicilia e uno in Calabria

Soccorso psicologico per i migranti, "un primo aiuto umano"

Sono quasi tutti fortemente traumatizzati da violenze, subite o assistite in Libia, e lutti per le persone, a volte care, disperse in mare durante la traversata nel Mediterraneo. Anche in un tempo in cui, la maggiore attenzione dell'Italia, come di tutti i paesi europei, è quella di contenere la pandemia, “non dobbiamo dimenticare il dramma di tutti i migranti, uomini, donne e bambini, che arrivano nelle nostre coste, in condizioni sempre più drammatiche”. A dirlo è Ester Russo psicologa di Medici Senza Frontiere che è intervenuta con il Primo Soccorso Psicologico per aiutare le persone migranti arrivate negli ultimi sbarchi in Sicilia. 

In che cosa consiste il Primo Soccorso Psicologico?
Come équipe, composta da psicologi e mediatori culturali specificatamente formati nel servizio di salute mentale, interveniamo con il Primo Soccorso Psicologico (PFA) rivolgendoci alle persone sbarcate nei nostri porti e poi accolte nei primi centri di accoglienza. In particolare, assistiamo le persone più vulnerabili, rassicurandole, e chi ha vissuto eventi traumatici in mare, come la morte di alcuni compagni di viaggio. Il primo supporto psicologico sullo stato di salute passa anche da quello di essere orientati ed informati pure sui diritti.

Recentemente quanti interventi avete fatto?
In meno di due mesi abbiamo effettuato cinque interventi, quattro in Sicilia e uno in Calabria. L'ultimo intervento lo abbiamo fatto lo scorso 24 ottobre. Si è trattato di persone con situazioni drammatiche diverse. Abbiamo operato, finora, non nei porti di sbarco ma nei centri di prima accoglienza. Abbiamo assistito persone che hanno vissuto e subito in maniera diretta o indiretta eventi traumatici molto stressanti legati al viaggio dal loro Paese, alla permanenza in Libia e alla traversata in mare.

Gli ultimi due interventi riguardano persone che hanno subito un naufragio?
Il 24 ottobre scorso siamo andati a supportare psicologicamente le persone sopravvissute ad un naufragio avvenuto il 22 ottobre. Si è trattato di naufraghi che provenivano dalla Libia e che, dopo 48 ore in mare, a causa del maltempo, avevano subito il capovolgimento della barca, finendo tutti in mare. Tra questi, dai racconti sappiamo che c'erano anche donne e bambini molto piccoli che stavano nella piccola cabina della barca. Molti non sapevano nuotare ma la loro fortuna è stata il soccorso avvenuto quasi subito di una barca di pescatori di Mazara del Vallo. Del gruppo di circa 20 persone, per gran parte di origine libica, cinque di loro si sono dispersi in mare. Noi ne abbiamo incontrati 13. Avendo appreso dai loro racconti della grande umanità e dedizione che hanno avuto nel salvare queste persone, abbiamo offerto anche ai pescatori la nostra disponibilità di supporto psicologico. I pescatori, infatti, hanno fatto di tutto per salvarli dal principio di congelamento, dando i loro vestiti per riscaldarli e per evitare che le loro condizioni di salute peggiorassero. Dopo essere arrivate a Lampedusa, noi le abbiamo ascoltate presso il centro di Villaggio Mosè Casa dei Gabbiani di Agrigento; quasi tutte in Libia, avevano prima una vita regolare ma dopo hanno preferito rischiare i pericoli del viaggio in mare, pur di fuggire dal conflitto in corso dove, raccontano, che 'si rischia di essere continuamente derubati di tutto e di essere uccisi ogni giorno'.

Tra le persone assistite c'è stato chi ha subito un grave lutto?
Tra queste, siamo state in supporto di una donna che ha perso durante il ribaltamento della barca la sua bambina di 2 anni e mezzo, rimanendo con il marito e un altro bambino di 5 anni. La famiglia era partita per dare una futuro diverso alla loro vita. Con la disperazione che possiamo immaginare, la donna ci ha raccontato che, nel momento della tragedia, era nella cabina con la bambina in braccio, e, quando la barca si è ribaltata, non sapendo nuotare ha perso di vista la piccola. Siamo davanti a un trauma fortissimo dove il senso di colpa per non averla potuta salvare è enorme. Nel primo soccorso diamo un vero e proprio primo aiuto umano come azione immediata e strutturata per la persona. C'è anche chi ha visto morire delle persone e quindi si sente profondamente provato e disorientato. Le reazioni della persona sono diverse perché dipendono dalla sua forza psico-fisica e dalla sua resilienza. Possiamo avere chi presenta una sintomatologia già acuta per cui in quel caso è necessario fare un intervento più strutturato e diversificato in rapporto ai bisogni che emergono. Dopo facciamo pure dei Follow up e cioè proviamo a rincontrarle dopo la quarantena per capire dove andranno e come eventualmente potrà continuare l'aiuto da parte di altri presidi sanitari. Nello stesso sbarco è stato pure soccorso un bambino di 9 anni che in mare purtroppo invece ha perso la madre. E' stato accertato per fortuna che ha un padre rimasto in Libia quindi speriamo che le autorità lavorino ad un eventuale suo ricongiungimento. Il bambino, intanto in questo momento, si è legato molto ad un altro giovane migrante che lo aiutato e che a sua volta ha perso il cugino. Noi abbiamo assistito il giovane anche in forza di questo delicato rapporto che è nato con il bambino.

A Crotone invece avete sostenuto un gruppo che si è ustionato a causa dello scoppio di un incendio.
Sì, in quel caso è successo che, nella barca, mentre era già vicinissima alla costa, è scoppiato un incendio forse per la fuoriuscita di benzina dal motore che ha preso fuoco. Alcune persone  si sono salvate ma altre hanno visto morire bruciati i loro compagni di viaggio. Le abbiamo incontrate al Cara di Isola di Capo Rizzuto. Tra queste ricordo che abbiamo supportato un ragazzo somalo molto giovane, che aveva avuto delle ustioni, aiutandolo a mettersi in contatto con la sorella che vive in Germania.

Come Medici Senza Frontiere che appello continuate a fare all'Italia e all'Europa?
In questo momento che tutte le navi delle Ong umanitarie sono bloccate, continua ad essere vergognoso e inaccettabile che si debba continuare a morire in mare. La gran parte delle persone che ascoltiamo ci dicono che per salvarsi non hanno altre possibilità che scappare dalle gravi condizioni di vita che ci sono in Libia. Vorremmo smettere di fare questi interventi  a carico di persone così fortemente traumatizzate a causa di un sistema che non si riesce a cambiare. Occorrerebbe, invece, favorire i canali umanitari di accesso sicuro proprio per evitare queste continue tragedie in mare.

Serena Termini

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)