Come procede l’integrazione in Arcella?

Scuole, patronati e associazioni sono i luoghi dove si respira la voglia di creare rete. Negozi etnici si mischiano a quelli italiani, c'è la scuola di italo-cinese, fiore all'occhiello di una comunità non sempre aperta al dialogo e non mancano i residenti che, al sentir pronunciare la parola multiculturalità, si infastidiscono come se tanta enfasi sulla presenza straniera cancellasse ogni altro aspetto del quartiere. 

Come procede l’integrazione in Arcella?

«Ero appena arrivato davanti al mio nuovo appartamento preso in affitto, avevo con me un mazzo di chiavi, ma non sapevo quale fosse quella giusta per aprire il cancello. Così ho iniziato a provarle tutte. Lo stesso ho fatto con il portone del condominio. Nel frattempo, dal balcone, una signora si è affacciata, con sospetto, per osservare la scena. Poco dopo, mentre spostavo i mobili, ho sentito suonare il citofono: erano i carabinieri, chiamati dalla donna, venuti a controllare cosa stessi facendo. E mentre loro mi facevano domande, vedevo la signora sbirciare dal pianerottolo, finché non hanno capito che ero in regola con documenti e contratti». Mentre racconta la sua storia Emmanuel ride, pensando alla prima vicissitudine in Italia: di origine congolese, nato in Germania e cresciuto in Congo, si è trasferito a Padova per studiare economia e ora lavora in uno studio. Fa parte dell’associazione Arising Africans, nata con l’obiettivo di decostruire gli stereotipi e i pregiudizi legati agli africani o a chi è nato in Italia, ma di origine africana. Parlando di integrazione, ricorda così il suo primo approccio con la realtà italiana. Proprio in Arcella, nel 2009.

Il quartiere ha preso consapevolezza del suo pluralismo culturale?
Giorno dopo giorno, con quella signora è nato un rapporto di conoscenza, al punto che Emmanuel è stato invitato spesso a prendere un caffè e ad ascoltare gli aneddoti della donna: dalla diffidenza iniziale, superate le barriere del pregiudizio, la loro convivenza è andata avanti nel rispetto reciproco, ma dopo sette anni da questo episodio che racconta la difficoltà di una parte della popolazione ad assimilare lo straniero, il quartiere ha preso consapevolezza del suo pluralismo culturale? E’ una domanda la cui risposta, positiva o negativa che sia, trascina con sé una lunga frase subordinata fatta di giustificazioni, da un verso, o negazione e rifiuto, dall’altro. Al semplice sentir pronunciare la parola multiculturalità, più di una persona storce il naso infastidita dalla ridondanza con la quale questo termine viene accostato al quartiere: scatta un meccanismo nel quale l’associazione “Arcella – più etnie” viene vista come una mistificazione della realtà. «L’Arcella non è solo questo», sembrano dire come se tanta enfasi sulla presenza straniera cancellasse ogni altro aspetto di comunità ricca di storia e ancorata a un passato di forte identità che si respira ancora oggi per le vie.

Sintomatico è il rapporto che i cittadini hanno con la prima Arcella, la zona retrostante alla stazione subito dopo aver sceso il cavalcavia Borgomagno: qui la concentrazione di stranieri è elevata, si sono sviluppate dinamiche transitorie e fugaci tipiche delle aree limitrofe ai luoghi di scambio e di viaggio come appunto sono le stazioni ferroviarie. E’ un luogo con delle regole a sé, ma se da un lato l’immigrato deve sempre motivare e prendere le distanze da episodio che riguardi quest’area identificata come luogo di degrado e di spaccio, è anche vero che molti proiettano arbitrariamente la loro visione negativa dell’area su tutto il quartiere. Perché per quanto, quello della prima Arcella, sia un fenomeno senz’altro da analizzare e comprendere, non si ritrova nella restante parte del quartiere che si estende a nord di Padova: basta, infatti, rivolgere lo sguardo un poco più oltre e ci accorgiamo di molteplici dinamiche di relazione, interscambio e nuovi rapporti sociali che coinvolgono tutto il tessuto cittadino.

Ci spostiamo a sinistra, verso l’area dei capannoni. In via Tunisi, da qualche mese è stata inaugurata la nuova chiesa ortodossa: voluta dalla comunità moldava, la più numerosa nel territorio arcellano assieme a quella romena, la chiesa di santa Parascheva non solo ha restituito dignità a un’area dismessa e periferica, ma oltre a essere un luogo di culto è anche un punto di aggregazione per persone di differenti nazionalità, tra cui ortodossi italiani. Ritornando, invece, ai piedi del cavalcavia e sostando alla fermata “Borgomagno” in attesa dell’arrivo del tram, ci intratteniamo nel vedere il fruttivendolo pakistano che serve un po’ di frutta e un po’ di verdura a una signora anziana, probabilmente nata e cresciuta qui, mentre accanto un gruppo di ragazzi indiani è indaffarato nel rimettere a nuovo il loro locale. Insomma, più ci si addentra lungo via Tiziano Aspetti, arteria principale del quartiere, più si percepisce una multiformità di negozi, attività e volti.

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Dai dati alle esperienze visive camminando per strada: l'Arcella è un melting pot globale
La sensazione visiva trova un’effettiva corrispondenza con i dati pubblicati dal Comune di Padova: in data 31 dicembre 2015, nel quartiere 2 – Nord, che comprende la prima Arcella, San Bellino, Ss. Trinità, San Carlo e Pontevigodarzere, su 39.145 abitanti, 10.485 sono stranieri. Un numero unico nella realtà padovana che colloca l’Arcella al primo posto per abitanti provenienti da fuori Italia, davanti a Padova Est (molto più vasta e che si estende fino a Camin e Granze) con 6.089 stranieri e agli altri quartieri. Alcuni cittadini ci fanno notare che la forbice tra le due percentuali è ampia (in Arcella il 27% della popolazione è straniera, il 73% italiana) e che l’aggettivo multietnico mal si presterebbe a descrivere il quartiere, ma è anche vero in Arcella risiede il 31% dei 33.380 stranieri che vivono in città. La demarcazione italiano/straniero, inoltre, tende a banalizzare e a generalizzare una “realtà nella realtà” che non è composta da un'unica massa di individui: all’interno, infatti, è presente una corposa poliedricità, una “superdiversity” che fa dell’Arcella un melting pot con più di 20 nazionalità differenti, ognuno evidentemente portatrice di una propria tradizione e di una propria appartenenza culturale che nel complesso, per quanto in minoranza rispetto altre etnie, va ad arricchire il pluralismo della comunità.

Ma se i numeri possono essere utili e validi indicatori, è camminando per le strade e interagendo con i vari attori sociali che si intuisce come si vada sviluppando una contaminazione e un dialogo all’interno delle varie dimensioni: al parco Milcovich , vediamo bambini di diversa nazionalità che giocano assieme, mentre il campo da basket è frequentato da un gruppo di filippini; salendo verso via Jacopo da Montagnana, troviamo il minimarket gestito da un giovane bangladese che sull’esterno ha affisso il cartello “Usare guante, grazie”: strappa un sorriso, ma la dice lunga di come voglia inserirsi nel tessuto locale pretendendo pulizia e rispetto per le regole. Riaffacciandoci su via Tiziano Aspetti, costeggiata da ristoranti indiani, giapponesi, parrucchieri e centri estetici cinesi, inseriti e mescolati assieme ai vari negozi italiani, entriamo nella libreria Limerick , la prima nel quartiere e aperta da qualche mese, dove una bambina, figlia di genitori stranieri, si improvvisa aiutante, mentre sfoglia libri illustrati in attesa dell’arrivo della mamma dopo il turno lavorativo.
Di sera, invece, più nell’interno, numerosi studenti frequentano una pizzeria gestita da un ragazzo libanese. Un connubio di sapori ed esperienze, ma come spiega Paola Mariani, di Amici dei Popoli, associazione con 30 anni di esperienza e attiva nel superare le diseguaglianze, esistono anche altre sfumature, più informali, ad alimentare incontri e incroci: «In un contesto di socializzazione, un grande e singolare apporto è dato dagli immigrati fuori dai supermercati: spesso si instaura un rapporto confidenziale tra il residente e il ragazzo di turno, nascono chiacchierate, domande, curiosità, e si interfacciano più di noi. Cadono, così, le barriere e non è più visto come uno straniero, ma come un conoscente da invitare a pranzo. Quando si parla di immigrazione è molto importante dire che ci sono molte famiglie ben inserite, che mandano i loro figli a scuola e vivono in condomini eterogenei. E’ fuorviante generalizzare e dire che tutti gli stranieri sono sbandati».

Le scuole: tra iniziative di condivisione a timori per l'apprendimento
Piccole storie di un’effervescenza attiva di chi vuol contribuire ad arricchire il luogo dove vive e, se possibile, migliorarlo come ha fatto Antonio Huaroto , architetto argentino che, per riqualificare una zona piena di erbacce e per facilitare la viabilità, ha progettato una pista ciclabile immersa nel verde tra folti alberi e orti botanici, che in futuro arriverà fino al parco Morandi. Il tratto già completato si trova tra via Zize e via Induno, nel rione San Bellino, non molto lontano dallo stadio di atletica Colbachini, ed è attraversato quotidianamente da mamme con carrozzine, anziani e soprattutto studenti che possono raggiungere i vari istituti scolastici attraverso una via sicura e protetta.
Proprio le scuole rappresentano una cartina al tornasole del dinamismo plurietnico che attraversa il quartiere: nell’istituto comprensivo Briosco, che si affaccia proprio sulla ciclopedonale “verde”, su 800 iscritti, il 43% è composto da bambini nigeriani, romeni, moldavi, marocchini, tunisini e bangladesi e pakistani. Un dato che, in percentuali leggermente differenti, coinvolge gran parte degli asili, materne e medie del quartiere: «In classe di mio figlio, che frequenta l’istituto Muratori, su 22 ragazzi, 12 sono di origine straniera – racconta Cadigia Hassan dell’associazione Ridim, Rete italiana donne immigrate, che aiuta a combattere la violenza di genere e a favorire l’inserimento della donna nel contesto sociale e lavorativo – Quello dell’istruzione è un luogo fondamentale per l’integrazione che, tuttavia, si basa più sulla sensibilità delle singole insegnanti attente a trasmettere valori senza alterare il programma di studio. Ma è molto complesso perché non tutte le scuole e le famiglie reagiscono positivamente: alcuni genitori, col timore di non vedere rispettate le materie scolastiche e per paura di ritardi nell’apprendimento dei figli, li trasferiscono in un’altra sede».
Per favorire la conoscenza reciproca, tra fine maggio e inizio giugno, nella scuola elementare Salvo D’Acquisto è stata allestita la mostra “Un museo grande come il mondo”: voluta da genitori e bambini, sono stati raccolti tamburelli, maschere, spezie e vestiti personali provenienti da zone disparate d’Italia e del globo, per realizzare, giocando e scoprendo, una genuina condivisione delle proprie origini. Sulla stessa scia, Cadigia, nata a Padova da mamma italiana e da padre somalo e da una decina di anni residente nell’Arcella, è stata coinvolta in un progetto della BiblioSanBe, la biblioteca per ragazzi aperta all’interno della parrocchia di San Bellino: qualche mese fa ha avviato una serie di cicli di letture di favole esotiche. Raccontate in lingua originale, le fiabe veicolano suoni e musicalità differenti che affascinano i più piccoli curiosi di trovare analogie tra testi appartenenti alla tradizione di continenti distanti chilometri e chilometri.

 

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La scuola italo-cinese: un progetto all'avanguardia inserito in una comunità non troppo aperta al dialogo
Un altro esempio di insegnamento scolastico virtuoso e all’avanguardia è la scuola internazionale italo-cinese in via Palladio. Primo istituto in Europa a proporre questa forma di bilinguismo, la scuola, che sorge all’interno di un edificio moderno ed esteticamente valido, segue i programmi scolastici italiani e cinesi, prestando attenzione all’integrazione culturale e al raggiungimento della completa padronanza delle lingua italiana, cinese e inglese. Eppure, proprio qui, ci si scontra con i problemi e i limiti di un processo d’integrazione in gran parte ancora da costruire. Abbiamo più volte provato a intervistare la direttrice, ma le mancate risposte, assieme alla diffidenza dei residenti, dimostrano una tendenza caratteriale e sociale più ermetica e meno espansiva che, in generale, caratterizza la comunità cinese, molto presente a Padova, la quinta per etnia nell’Arcella.
Una difficoltà ben sperimentata da Claudia Mantovan, ricercatrice nel dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata dell'Università di Padova, durante la stesura del suo libro “Quartieri contesi”, nel quale racconta le dinamiche sociali delle periferie urbane: «I cinesi si espongono di meno e non si rendono partecipi nelle attività “ricreative” e di integrazione del quartiere: dimostrano di essere un gruppo molto concentrato sul lavoro, la cui peculiarità è di risiedere dove hanno le attività commerciali, creando un blocco unitario tra unità residenziale e lavoro. Un mediatore culturale cinese mi ha detto che loro sono estremamente focalizzati sul lavoro: il progetto migratorio che li porta in Italia è volto a guadagnare e hanno poco tempo per comunicare e dialogare con la società. Il proprietario di un noto ristorante cinese nel centro di Padova, infatti, mi ha spiegato che i suoi dipendenti lavorano per 10 ore al giorno per quasi tutta la settimana e, quando sono liberi, preferiscono rilassarsi senza impegnarsi nel seguire corsi di italiano. Questa è una prima causa di distacco, ma c’è anche una motivazione “storica”: i primi cinesi sono arrivati in Italia negli anni ’80 e le istituzioni hanno fatto poco e nulla per integrarli. L’Italia non ha mai messo in piedi una politica migratoria con leggi appropriate, ma ha sempre parlato di emergenza. I tentativi per entrare in comunicazione sono stati fatti molto tardi ed essendo, quello cinese, un popolo orgoglioso e molto collettivo, rispetto ad altri dove prevale il singolo, quando non ha trovato risposte, si è  auto-organizzato in comunità autonome».

Differenti credi religiosi, ma voglia di interagire: le risorse delle chiese e dei patronati
In linea d’aria con la scuola internazionale italo-cinese, andando verso destra, il santuario dell’Arcella ci accoglie con il suo maestoso campanile e col nuovo patronato, inaugurato appena un anno fa. Con i primi caldi pomeridiani primaverili, bambini, mamme e anziani si danno appuntamento per passare alcune ore tra una chiacchiera sulle panchine, un tiro a canestro e un giro in giostra. Un insieme di abiti e colori differenti perché proprio le parrocchie e i patronati sono un luogo di socialità molto importante sia per i ragazzi più propensi, nel loro innocente dinamismo, a stringere amicizia, sia per i genitori che, pur avendo credi religiosi differenti, qui possono sperimentare un dialogo quotidiano e di fiducia reciproca.
Scuole e patronati rimangono i principali luoghi di interscambio in una società che, figlia dei repentini mutamenti evolutivi, ha perso alcune certezze e vede cambiati i rapporti tra cittadini e spazi pubblici: gli stranieri, sia per questioni economiche, ma anche perché soliti a riproporre abitudini sociali delle proprie comunità, frequentano maggiormente giardini, come le donne dell’Est che si ritrovano vicino alla chiesa San Carlo, o piazze e parchi lasciati liberi dai “padovani” che tendono sempre più a instaurare rapporti domestici e privati, arrivando, in estremo, a chiudersi in loro stessi. C’è anche questo dietro la sensazione di invasione e di instabilità recepita a pelle da alcuni residenti.

«Politiche urbane concrete e valorizzare esempi positivi: così si supera la diffidenza»
Emmanuel, dopo quel siparietto di sette anni fa e in seguito a continue puntualizzazioni come «Io sono qui per studiare» o incresciosi episodi conditi dall’esclamazione «Tornate al tuo paese», ha capito la diffidenza che si respira a Padova e nel quartiere e ha provato ad analizzare, dati alla mano, l’accostamento “straniero – illegalità” per capire se ci fosse davvero qualcosa di concreto: «Padova, così come l’Arcella, ha un indice basso di criminalità, ma è vero che quando tornavo a piedi a casa, su via Tiziano Aspetti, venivo fermato da italiani chiedendomi se avessi della droga. Non nego la presenza dello spaccio in alcune sacche del quartiere, ma se esiste un’offerta è anche perché qualcuno vuole comprare e, in questi casi, l’offerente non guarda in faccia a un bianco o un nero. Se lo straniero più malfamato e pieno di droga non trovasse nessuno disposto a comprarla, fallirebbe».
Emma non vuole scaricare le colpe puntando il dito su un unico colpevole, ma osservando il fenomeno nel suo insieme, arriva alla conclusione che non è un problema di integrazione, ma di politica urbana: cita l’esempio di un noto spacciatore che viene arrestato e puntualmente rilasciato, vorrebbe una maggior volontà da parte del Comune nel risolvere le criticità senza limitarsi ad arginarle con provvedimenti estemporanei. «Prim’ancora dell’accettazione e dell’integrazione, a Padova c’è da superare uno scoglio psicologico, ovvero quello del rifiuto dell’immigrato. Il Comune dovrebbe informarsi per capire chi sono, perché dire semplicemente “straniero” è molto limitante. Bisogna definire le appartenenze, capire che solo il 30% è islamico mentre tutti gli altri sono cattolici, assicurare adeguata assistenza, sia per il rinnovo dei permessi, sia per i luoghi di culto. Servirebbe esaltare quegli esempi positivi, già presenti nel quartiere, affinché si possa distendere il clima. Scrivere un titolo come “Boom di stranieri in Arcella: un residente su quattro non è italiano”, invece, significa trasmettere un messaggio negativo che blocca il processo di integrazione. Lo straniero si sentirà sempre sotto osservazione e giudicato per qualsiasi azione compiuta. Contro l’ignoranza mischiata alla cattiveria si può far poco, ma quella mischiata alla diffidenza va combattuta: Ada, una ragazza dell’associazione, è cresciuta vicino a Treviso, è italiana a tutti gli effetti, ma è di pelle nera perché di origine nigeriana e quando è entrata in diversi negozi per cambiare alcuni soldi in moneta raccolti da Arising Africans è stata mandata via senza nemmeno avere il tempo di domandare. Fa molto male dover sempre spiegare e motivare».

Riflessione sotto la statua di sant'Antonio
Verso la fine di maggio, con Emmanuel e con altri ragazzi dell’associazione, ci siamo ritrovati in una passeggiata pomeridiana all’interno del progetto di rilettura del quartiere “ContArcella” . Organizzata da Angoli di Mondo, negozio di prodotti equosolidali in via Jacopo da Montagnana e dall’associazione Xena, che propone scambi culturali, la camminata, all’insegna del quotidiano e della normalità, è stato un modo per assaporare e conoscere, assieme ad altra gente curiosa proveniente anche da fuori Padova, sfaccettature di quartiere e pezzi di storia che alcuni residenti ancora non conoscono. Tra una tappa e l’altra, il gruppo si è fermato anche dinanzi alla statua di sant’Antonio, all’incrocio tra viale dell’Arcella e via Tiziano Aspetti; qui una signora, legata al quartiere anche se adesso vive altrove, ha ricordato la vita del taumaturgo: forestiero, nato a Lisbona, in Portogallo, e cresciuto in terra lusitana prima di trasferirsi in Italia. «Questa statua è qui anche per ricordarci che un migrante è diventato il “santo” della città». Forse, pensiamo noi che stiamo ad ascoltarla, Padova dovrebbe ricordarselo ogni giorno. E non solo il 13 giugno.

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Parte 1 - Arcella, un quartiere tra postfordismo e superdiversity

Parte 2 - La crescita urbana dell’Arcella: gli interessi dei privati a discapito dei cittadini e del verde

Parte 3 - Il tram e le linee bus altalenanti: la mobilità nell’Arcella

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