Settant'anni di Repubblica. Una eredità da far fruttare

Il 2 giugno 1946 nasceva la Repubblica. Mai forse come quest’anno la data è venuta caricandosi di un retrogusto politico che rischia di offuscare la sua importanza storica, a maggior ragione nel momento in cui festeggiamo i settant’anni da quel fatidico giorno nel quale 25 milioni di italiani – e tra loro, per la prima volta, le donne – furono chiamati a scegliere quale Italia costruire sulle macerie della tragica avventura fascista. Lasciando da parte le polemiche contingenti, la vera domanda è una sola: cosa hanno ancora da dirci e da insegnarci quelle giornate straordinarie?

Settant'anni di Repubblica. Una eredità da far fruttare

Mai forse come quest’anno la data del 2 giugno è venuta caricandosi di un retrogusto politico che rischia di offuscare la sua importanza storica, a maggior ragione nel momento in cui festeggiamo i settant’anni da quel fatidico giorno nel quale 25 milioni di italiani – e tra loro, per la prima volta, le donne – furono chiamati a scegliere quale Italia costruire sulle macerie della tragica avventura fascista: monarchica o repubblicana, saldamente atlantica o con lo sguardo rivolto all’Unione sovietica di Stalin.
Inevitabile, forse, nel momento in cui il nostro paese si accinge a votare una sostanziale riforma di quella carta costituzionale che è stata il grande capolavoro di una stagione per molti aspetti irripetibile e l’architrave capace di sorreggere il cammino prima spedito e via via sempre più accidentato della nostra repubblica.
Ma non è alle polemiche, alle questioni di lana caprina su chi siano e cosa pensino i “veri” partigiani, che sentiamo di dover dare spazio. E nemmeno, per quanto il tema sia importante, a preoccuparci è la sorte di un governo che ha legato la sua sopravvivenza alla riforma.

Alla vigilia di questo 2 giugno, ci pare invece importante alzare lo sguardo oltre la contingenza politica.
E tornare a fissarlo su quel giorno cruciale, per comprendere cosa – a distanza di settant’anni – quelle masse di italiani in fila di fronte ai seggi, accalcati nei comizi, intenti a sognare e a costruire un’Italia finalmente libera hanno ancora da dirci e da insegnarci.

Forse possiamo azzardare un giudizio: a rendere quei giorni ancora vivi, e significativi, per un oggi segnato anche da nubi cupe, è l’energia che sanno trasferirci. La voglia di esserci, di partecipare, di contare.
La certezza che ricostruire una nazione piegata dalla guerra (e guardando all’oggi potremmo dire piegata dalla crisi...) è impresa sì titanica, ma entusiasmante. La convinzione che il “fare insieme” è più produttivo del “faccio io”.
Ancora, lo stile, il metodo di un confronto tra parti politiche quantomai distanti eppure capaci di trovare il punto d’incontro per il bene del paese, in un compromesso “alto” e non piegato alle logiche del ritorno elettorale contingente, in cui fu determinante il contributo dei cattolici.

Tutto questo, lo diciamo a bassa voce, ci manca. La seconda repubblica non ha saputo essere all’altezza della prima, se non forse nei difetti.
Ma farne una colpa solo alla politica sarebbe un errore. Dietro ai partiti, dietro alle personalità che si spesero nella costituente, c’era una società coinvolta e attivamente partecipe.
Da qui è opportuno ripartire e a questo siamo chiamati a dare il nostro contributo di cittadini credenti.

Il 2 giugno può essere un richiamo forte, ambizioso, alto che deve tornare a parlare a ciascuno di noi: non per “fare come loro”, perché nessuna stagione è uguale a quelle che l’hanno preceduta, ma per “essere come loro”.
Innamorati del nostro paese, e pronti ad aggiungere anche il nostro piccolo mattone – con umiltà, e con tenacia – alla costruzione di quella casa comune che si chiama Italia.

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