«Eccomi, sono Claudio, figlio di Dio»

 Il racconto dell'ingresso del vescovo Claudio a Padova. Dall'accoglienza del sindaco Bitonci al saluto fraterno dell'amministratore diocesano Doni. Dal "voto di povertà" del vescovo Claudio davanti alla sua gente («non tratterrò nulla di quanto mi verrà consegnato durante il mio servizio a Padova») a quel gesto, la comunione data per primi ai malati che chiude il cerchio di una giornata nel segno degli ultimi.
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«Eccomi, sono Claudio, figlio di Dio»

«Eccomi, sono Claudio, figlio di Dio».

Sei parole e due virgole. Basterebbe questa manciata di sillabe con cui oggi il vescovo Claudio ha aperto la sua omelia, la prima da successore di san Prosdocimo, per dare l’idea della svolta che ha davanti a sé la chiesa di Padova che da ora in poi si stringe attorno al nuovo pastore.

«Claudio», «figlio di Dio». E null’altro. Una virata decisa verso nucleo della vicenda di ogni cristiano e di ogni istituzione cristiana. Parole che hanno come deflagrato all’interno di una cattedrale gremita in ogni angolo e interstizio da consacrati, fedeli, autorità e semplici curiosi attratti dai primi saluti che don Claudio, nelle scorse settimane, ha inviato a Padova da Mantova. È come se la storia millenaria della chiesa di Padova, definita ancora una volta «grande» da papa Francesco nel mandato che contiene la nomina del nuovo vescovo, osteso e letto davanti all’assemblea, fosse ora chiamata più forte che mai, attraverso la venuta di questo pastore, a sintetizzarsi nella suo nocciolo primigenio, nella sua perla più preziosa: la consapevolezza di essere creatura di Dio. E null’altro.

Tra fede e tradizione

Certo, non sono passati inosservati i profondi significati dei gesti antichi di un ingresso del vescovo; una cerimonia che Padova non vedeva da oltre un quarto si secolo e che ha riscoperto nel suo sapore deciso di fede impastata alla tradizione. Gesti e segni come la consegna del pastorale da parte del patriarca di Venezia, il metropolita Francesco Moraglia, appena dopo la lettura delle parole del papa («Poiché è necessario provvedere all’antica e prestigiosa sede cattedrale di Padova, resasi vacante per la rinunzia del venerabile fratello Antonio Mattiazzo tu, figlio diletto, dotato di insigni e riconosciute qualità, appari adatto a reggerla»); o come la consegna del vangelo, questa volta da parte del vescovo Claudio ad alcuni rappresentanti della diocesi, consacrati e laici, rendono davvero l’idea di una chiesa che cammina da duemila anni e che proviene direttamente da quel mandato di Gesù a Pietro: «Pasci le mie pecorelle».

Niente titoli e onorificenze

Eppure sono ancora le parole del nuovo vescovo a catalizzare l’attenzione della folla che ha gremito anche il sagrato e ha atteso il temine della messa solenne sotto la pioggia. «So che il mio servizio potrebbe diventare un potere – ha scandito mons. Cipolla – ma ciò sarebbe un tradimento». E poi ancora l’appello ai sacerdoti e ai diaconi: «Aiutatemi, pregate per me, correggetemi». Sì perché, come aveva detto prima con un candore disarmante, inatteso e bergogliano insieme, «ho un po’ di cose da rivedere in me stesso e prevedo anche per lo stile episcopale che mi accingo a svolgere. Non mi si addicono, e così deve essere almeno tra noi cristiani, titoli, onorificenze, primi posti. Non posso accettare distanze sociali e di classe. Il vangelo mi chiede di essere servo. Di essere “ultimo”!».

Già, cristiani. In tutta la giornata del suo ingresso, don Claudio non ha usato altro appellativo per il suo popolo. Un modo di definirlo che implica una consapevolezza che ha bisogno di diffondersi: la società oggi non è più quella cattolica di qualche decennio fa, e ogni credente è responsabile di narrare Cristo a chi incontra. Una visione estroversa che porta a Padova quell’invito pressante a uscire che papa Francesco ripete da oltre due anni.

Il "voto di povertà

E poi un segno «dell’onestà del mio impegno di fronte a voi: la promessa di non trattenere per me nulla di quanto mi verrà consegnato nel corso del mio servizio pastorale nella diocesi di Padova. Una specie di voto di povertà che emetto di fronte a voi. Terminerò il mio servizio episcopale senza accrescere di un euro il conto corrente patrimoniale personale, la cui gestione consegnerò ai nostri uffici».

Paiono esserci insomma tutti i presupposti perché l’appello del sindaco di Padova Massimo Bitonci, che ha accolto il vescovo sul sagrato della cattedrale, possa avverarsi: «Da sindaco la invito a interpellare, sempre e comunque, l’amministrazione comunale e noi singoli individui. A scuotere e persuadere le nostre coscienze. Padova è grande ed è sempre stata grande quando ha saputo ascoltare le parole pronunciate dalla cattedra del vescovo Prosdocimo».

L'abbraccio della chiesa di Padova

Saluto che ha preceduto solo di pochi istanti quelli rivolti a don Claudio da don Paolo Doni, che ora lascia l’incarico di amministratore diocesano – che lo ha chiamato «fratello vescovo» e lo ha ringraziato per aver incontrto gli ultimi all’Opsa e gli amministratori a Casa Madre Teresa per i malati di Alzheimer in mattinata: «Abbiamo capito bene e condividiamo le tue preferenze!» – e di Stefano Bertin che a nome di tutto il consiglio pastorale diocesano ha detto: «Il Signore le faccia il dono della sapienza. Ci aiuti a riscoprire il gusto e la gioia di stare insieme come fratelli. Abbiamo capito che per lei l’incontro con le persone vale più delle cose da fare». Ricordando così alla chiesa di Padova quanto sia reale e tangibile l’idea che le strutture e gli uffici siano sempre a servizio delle relazioni e che mai come nella chiesa la struttura è sostanza e il suo funzionamento dice molto della sua natura.

Un circolo che si chiude

A chiudere idealmente la celebrazione più significativa degli ultimi anni per una chiesa che ora riprende il cammino con passo nuovo» – sono sempre parole di Bertin – è un gesto che finisce per incorniciare l’intera giornata. Il saluto dei sofferenti all’Opera della Provvidenza al mattino e durante la preghiera prima della partenza per la Cattedrale, si è compiuto in quegli scalini scesi dal vescovo alla comunione per portare il corpo di Cristo prima di tutto a loro, alle persone malate e con disabilità che assistevano dalla prima fila.

Alla chiesa di Padova dunque non resta che camminare. Questo è il momento di farlo guardandosi negli occhi e stringendosi la mano. Avendo ben chiaro che il cammino ha senso solamente per l’annuncio e non per i mille piccoli «tradimenti» costantemente in agguato nelle istituzioni degli uomini. Non ci resta che pregare, come ha detto il patriarca Moraglia aprendo la messa solenne come capo della conferenza episcopale del Triveneto: «La nostra preghiera è affinché tu – in ogni momento – sappia amare il Signore Gesù nella gioia della fede e servendo il suo gregge come lui ha richiesto all’apostolo Pietro. Il resto, vedrai, verrà di conseguenza».

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