La parabola dei due figli. Due racconti che possono dirci molto di quale fosse l’immagine di famiglia che aveva Gesù

In questa occasione, ci vorremmo avvicinare a quei racconti del tutto caratteristici della “buona notizia” di Gesù che sono le parabole.

La parabola dei due figli. Due racconti che possono dirci molto di quale fosse l’immagine di famiglia che aveva Gesù

Fino ad oggi ci siamo lasciati condurre dalla Parola di Dio attraverso i suoi protagonisti, ovvero gli uomini e le donne del popolo di Israele che, pur con tutti i limiti della loro umanità, hanno desiderato camminare e mettere la vita nelle mani del Signore. In questa occasione, invece, ci vorremmo avvicinare a quei racconti del tutto caratteristici della “buona notizia” di Gesù che sono le parabole e, in particolare, alle due in cui ad agire sono un padre e i suoi figli. Si tratta, infatti, di due racconti che possono dirci molto di quale sia l’immagine di famiglia che Gesù aveva nel suo bagaglio di conoscenze. Conoscenze, ovviamente, che non gli derivavano solo dall’essere figlio di Giuseppe, il falegname-carpentiere che lo ha educato alla vita fra gli uomini, ma anche dall’essere il Figlio prediletto, in unità misteriosa, ma concretissima con il Padre dei cieli.

Nei racconti parabolici Gesù desidera portare i suoi interlocutori e quindi tutti noi a conoscere la reale immagine di Dio, liberandoci delle nostre precomprensioni, dei nostri pre-giudizi su di Lui che, quasi sempre, gli attribuiscono dei tratti e delle caratteristiche che non sono “da Dio”, ma vengono create da noi, sulla base delle nostre esperienze di vita famigliare, più o meno dolorose. Il primo di questi due racconti (Mt 21, 28-32) vede un padre che invita in uguale e identico modo i suoi due figli ad andare a lavorare nella vigna. La prima osservazione da fare è proprio questa: l’invito non presenta differenze, il padre rispetto alla “missione” della vigna, non fa preferenze, non crea distinguo, né previsioni di sorta. È desideroso che entrambi i figli possano spendersi per il compito a loro assegnato, crede che abbiano le stesse possibilità e che, probabilmente, ciascuno con i suoi talenti possa far bene. Non ci sono figli di serie A e figli di serie minori, fratelli più avvantaggiati di altri; se lo pensiamo siamo noi a sbagliare e questo ci fa subito correre il rischio di avere una visione distorta dell’amore del padre. Quella che si differenzia è la risposta dei figli. Uno ammette di “non aver voglia” di spendersi per la vigna, ma poi si pente e ci va, mentre, antiteticamente, il secondo dice “sì, signore”, ma non ci va. Facile per i capi dei sacerdoti e gli anziani a cui Gesù rivolge la domanda esplicita rispondere che la “volontà del padre” è stata compiuta dal primo, più difficile avere però l’umiltà e l’onestà intellettuale per mettersi nei panni di chi questa volontà non ha saputo adempierla. Le parole di Gesù sono sferzanti: si rifà alla predicazione del suo predecessore, il Battista, che ha chiesto conversione e giustizia e l’ha ottenuta da pubblicani e prostitute (gli impresentabili di ogni tempo) ma non da chi si credeva già nel giusto senza bisogno di conversione. Lo scarto che Gesù chiede è proprio qui: fra la comprensione teorica di quale sia la strada giusta e il proponimento di provare a seguirla.

Il figlio che ammette la sua indolenza, che non si vergogna di manifestare al papà che costa fatica ascoltarlo e fidarsi della sua parola, incontrerà sempre e comunque il suo amore, la sua capacità di ascolto, in una parola la sua misericordia, ma il figlio che sceglie di chiamare il padre “Signore”, che lo ossequia con le parole, ma poi non teme, nel presunto segreto, di comportarsi come se il padre non lo vedesse, quest’ultimo non è punito, ma si allontana lui per primo dalla strada del bene e credendo di non aver bisogno di convertirsi, ovvero letteralmente di tornare sui suoi passi, non può che andare a sbattere. Molto spesso facciamo fatica a liberarci dall’idea di un Dio che ci punisce per ogni nostro errore e quindi anche per la nostra pigrizia, mentre fin da quando nel deserto, nel deserto di ciascuno di noi, cioè nel momento del bisogno esistenziale di sempre, egli ci ha donato le sue Dieci Parole, la sua non è stata altro che l’offerta piena della Sua vita. Gesù nella sua predicazione, prima di donarsi egli stesso per tutti, prima, potremmo dire, di passare dalle parole ai fatti, non fa che ribadirci questa necessità di ritrovare l’intimità perduta con il padre, ammettere la nostra debolezza, il nostro peccato, il nostro non capire o non voler capire. Il Signore predilige i deboli, è sempre dalla loro parte, si sbilancia nella misura in cui ammettiamo di avere bisogno di Lui; ma ha le mani legate, a causa dell’amore per la nostra libertà, quando cerchiamo di fare da soli. Quando da piccoli iniziavamo a pedalare sulla bici senza le rotelle, i primi metri le braccia del papà erano lì pronte a prenderci e se questo non è successo, beh, tutti ammettiamo che lo avremmo desiderato.

Nostro Padre nei cieli, quello che Gesù ci racconta, è sempre così pronto e premuroso se solo sappiamo tornare a lui con un ginocchio sbucciato o un gomito livido, a lui a chiedere il disinfettante e i cerotti del perdono; quelli che portava Giovanni bruciavano certamente di più, quelli scelti da Gesù sono medicamenti speciali, la cui forza risanatrice viene direttamente da Lui e non chiede in cambio sacrifici quanto piuttosto un animo grato e riconoscente. Chissà cosa si sarebbero potuti dire i due fratelli della parabola tornando la sera a cena di fronte a loro padre, chissà se anche noi avremo il coraggio di saper stare nei panni di entrambi: capaci di ravvedimento e alla fine guidati da proponimenti buoni oppure disonesti e in fondo non capaci di fidarsi di chi ci ha dato la vita. C’è posto per tutti i fratelli alla cena del Signore, ma quando si fa sera, attorno al fuoco, sull’amore non possiamo bluffare e solo nella verità possiamo sentirci davvero in famiglia.

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Fonte: Sir