I preti calano. Quale parrocchia? Cambia il ruolo del prete, si riscopre la ministerialità dei laici

La 69° Settimana nazionale di aggiornamento pastorale promossa dal COP, Centro orientamento pastorale, si è svolta quest’anno a Villa Immacolata di Torreglia (Pd); un centinaio i partecipanti provenienti da tutta Italia. Sul tavolo un tema di stringente attualità: “Parrocchia senza preti. Dalla crisi delle vocazioni alla rinnovata ministerialità laicale”.

I preti calano. Quale parrocchia? Cambia il ruolo del prete, si riscopre la ministerialità dei laici

Quattro relazioni hanno affrontato: la condizione del clero oggi in Italia (Franco Garelli); quale chiesa in una chiesa senza preti (Antonio Mastantuono); quale figura di prete (Luca Bressan); e la spiritualità del nuovo operatore pastorale (Leopoldo Voltan). Mentre tre interventi hanno portato alcune esperienze: Le unità pastorali: uno snodo fondamentale per il rinnovamento della Chiesa (Giovanni Villata); Quale figura di laico/famiglia può assumere responsabilità in una parrocchia senza prete (Assunta Steccanella); Le équipe di animazione pastorale. Tra battesimo, ordine sacro, matrimonio, professione religiosa (Livio Tonello)

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Il calo demografico del clero (negli ultimi trent’anni la media in Italia è del meno 16 per cento con picchi di secolarizzazione che vedono il Nord Italia in prima linea) non permetterà (e già in molte parti d’Italia non permette) la presenza di un parroco per ogni parrocchia. Come raggiungere allora tutti i battezzati (anch’essi in calo)? Come essere comunità senza un pastore presente permanentemente? Come rispondere a una richiesta di sacro e di religiosità che però esiste, se il 75 per cento della popolazione, in Italia, si dice ancora oggi cattolica?

Le domande sul tavolo, a cui la Settimana di aggiornamento pastorale promossa del Centro di orientamento pastorale (Cop) a Villa Immacolata ha cercato di dare risposte, sono molte, a volte quasi contraddittorie, a seconda del punto di vista. I sociologi rilevano una domanda su Dio; la Chiesa registra uno svuotamento progressivo delle chiese e una diminuzione delle vocazioni; il popolo di Dio sembra disorientato e forse più rattristato che motivato, perché stanno saltando gli schemi e le modalità che finora sono state di riferimento: parrocchia, parroco (possibilmente anche il “cappellano”), rapporti piramidali, responsabilità centralizzata. Invece i “segni dei tempi” chiedono, o meglio esigono, quello che il Vaticano II aveva più volte affermato e che papa Francesco ribadisce con costanza: una Chiesa missionaria, laici che riscoprono la propria ministerialità in funzione del battesimo, preti che recuperano la centralità dell’Eucaristia, la dimensione della vigilanza, coerenza e testimonianza di vita, consapevolezza di un “noi” ministeriale e capacità di impastarsi con i problemi e la vita della gente. E non si tratta di contrastare la contrazione numerica ma di rispondere a una missione, che i numeri evidenziano e sollecitano maggiormente.

C’è insomma da cambiare dinamiche per recuperare l’essenza di essere popolo di Dio, di essere corresponsabili nell’annuncio del Regno di Dio. E se si cambia paradigma, la fatica non manca, ma la Chiesa sarà più evangelica: «Per le sfide di oggi non occorre solo e soprattutto un prete, ma anche una comunità che veramente evangelizza – ha ricordato il presidente del Cop, il vescovo Domenico Sigalini – Lavoriamo per una forma di chiesa popolare, di parrocchia che si sente trasformata e che dovrà permanere anche se la diocesi si riempirà ancora di tanti preti; perché non è il numero di preti che fa la chiesa, ma il popolo di Dio se, in comunione con il suo vescovo e i suoi preti, sa ridire il vangelo alle nuove generazioni, sa confrontarsi con le nuove domande, accetta la sfida dell’ateo ribelle e dell’ateo praticante».

Come? Superando «alcune assolutizzazioni che sono state caricate sulle parrocchie: abbiamo sempre fatto così, il sentirsi continuamente aggrediti e fare della parrocchia una cittadella in difesa; il predominio unico e spesso indiscutibile del clero, dove vengono trascurati i diritti sacrosanti del popolo di Dio che è in maggior parte fatto da laici».

Il passaggio fondamentale sta nell’invito già lanciato da Giovanni Paolo II: duc in altum, Chiesa prendi il largo, che significa anche attuare la corresponsabilità intesa come «lavorare assieme ciascuno con la sua vocazione specifica e dentro un progetto costruito in maniera sinodale»; corresponsabilità che nasce dal battesimo e porta tutti a sentirsi responsabili, ristabilendo una certa simmetria tra preti e laici.

E se «non ci saranno mai territori senza preti, perché vorrebbe dire pure senza Eucaristia che è il centro di ogni vita cristiana. E non ci sarà mai prete senza Eucaristia, perché è il centro della sua stessa vita e la sostanza del suo ministero», va immaginato un modo diverso di esercitare il ministero, non tanto parroco ma prete itinerante, traghettatore, incaricato, accanto a laici (non clericalizzati) in grado di avere la responsabilità di una parrocchia e di alleggerire il cumulo delle incombenze finora in carico al parroco. Laici singoli o in équipe o anche in “formato famiglia”, come già si sperimenta per esempio a Milano (famiglie missionarie a Km0), che già nel loro piccolo vivono tutte le dinamiche che si ritrovano in una comunità; laici a cui viene chiesta formazione e professionalità, senza però ridurre il servizio a mestiere. Laici che da collaboratori dei preti diventano corresponsabili dell’essere e dell’agire della Chiesa e parrocchie che passano dall’essere luogo in cui si celebra la fede a luogo in cui, prima di tutto, la si annuncia.

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