Maria, «cosa molto buona». È la creazione intonsa, perfetta, uscita dalle mani del Creatore

È la creazione intonsa, perfetta, uscita dalle mani del Creatore È ciò che saremmo noi, se non fossimo nel peccato

Maria, «cosa molto buona». È la creazione intonsa, perfetta, uscita dalle mani del Creatore

Le popolazioni nomadi del deserto portano con sé l’acqua in pelli di animale, mangiano quanto, seccato, non marcisce, camminano sotto il sole, passano la notte all’addiaccio, sperando che serpenti e scorpioni non insidino la loro vita. Trascorre così l’esistenza di chi abita quell’angolo di mondo che, come fornace, arde e consuma. Abita così Israele, per quarant’anni, dopo aver subìto le angherie di un faraone iniquo, che desiderava solo costruire il tempio caduco della propria cieca superbia. Fuggito dalla morsa dell’Egitto, attraversato, grazie ai prodigi di Dio, il mare dei Giunchi, Israele fa del deserto la sua casa. E attende impaziente il Giordano, per entrare nella Terra dove ci sono melograni, viti, fichi; dove il miele e il latte, le banane e i datteri allietano la vita dell’uomo. È l’antica storia delle nostre radici. Aspra, dura, implacabile, in cui c’è solo da sperare – canta il salmo 91 – di abitare «al riparo dell’Altissimo», di passare la notte «all’ombra dell’Onnipotente», rifugio sotto le cui ali la sventura non può colpire e le colpe non abbattono gli uomini e gli angeli custodiscono le loro vie e il piede non inciampa e i leoni e le vipere vengono calpestati. Non sono immagini o metafore: sono stati della vita di Israele, divenuta il segno, il sacramento, di ciò che siamo noi. Forse non intravediamo quanto la storia continui a ripetere faraoni iniqui e sanguinari? Bambini e donne, come in Egitto e nel deserto, non sentono ancora la morsa del dolore? E questo cesserà dopo un millennio, due millenni, tre millenni? «Quando giunse la pienezza del tempo» – cioè nel momento in cui il tempo attinse la propria ragion d’essere –, «Dio mandò suo Figlio» – la Trinità, dunque, uscì da sé – «nato da donna». È talmente abbagliante ciò che Paolo sta dicendo, nel quarto capitolo della Lettera ai Galati, che non vuole mescolarlo nemmeno con il nome proprio della Madre di Dio. L’apostolo è così travolto dall’uso della parola “Figlio”, è così abitato dalla cristofania, che è l’incarnazione, è così rapito dalla carne del Figlio di Dio, che non chiama nemmeno per nome Colei che gli diede la carne – che è una cosa certamente voluta, teologicamente.

Un’ombra copre, con la potenza dell’Altissimo, Maria di Nazareth. Discende dal cielo e, avvolgendo tutte le cose, riconsegna verità all’opera della creazione. Non si può comprendere il senso del grembo di questa augustissima Vergine, la sua inenarrabile immensità, davanti a cui le miriadi di angeli tacciono, se non si intuisce che lei è la «cosa molto buona» di Genesi. Noi dimentichiamo che il dogma primordiale della nostra fede è la creatio ex nihilo. Nulla era, se non Dio. E, ora che esistiamo, nulla esiste, se non Dio – con noi. Maria di Nazareth è la creazione intonsa, perfetta, uscita dalle mani del Creatore. È ciò che saremmo noi, se non fossimo nel peccato. I cieli e i cieli dei cieli, gli abissi degli oceani e le ali degli arcangeli sono nulla di fronte all’uomo, maschio e femmina, plasmato dal tocco e dal soffio di Dio. Il Verbo ha voluto generarsi dentro il grembo dell’opera del Padre, tutto santo, tutto luce, tutto verità, estraneo alla caducità del mondo avvelenato dall’impertinente superbia di Adamo, che è la nostra superbia, la nostra – la chiamiamo, appunto, il “peccato”. L’ombra dello Spirito Santo scende sulla “cosa molto buona”, unisce alla perfetta creatura il Creatore, epifanizza il desiderio di comunione che Dio aveva creandoci, realizza ciò che egli pensava da sempre nella relazione tra sé e l’uomo. Noi invece abbiamo detto: aspetta, proviamo da soli. Puntiamo il cannocchiale, grandissimo. E guardiamo, lontanissimo. E non vediamo niente: puntini. E li misuriamo. Tanto tantissimo, immensissimo… Non capiamo niente, fuori da Eden. Lei no; ed è lì che il Verbo, Dio come il Padre, uomo come Maria, è reso corpo, perché si compiano le nozze tra creatura e Creatore, la ragione della creazione stessa. L’epiclesi dello Spirito Santo fa sì che la carne ricevuta dalla Tuttasanta divenga quella di un uomo che, trafitto nella morte, rende possibile che noi ne mangiamo e ne beviamo, in modo che la nostra carne torni a essere tutta santa: ciò per cui Dio l’ha creata.

don Gianandrea Di Donna
Direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia

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