Da Hiroshima a Bakhmut attendendo la controffensiva: un mondo più armato e diviso. Nota geopolitica

Agli analisti più disincantati non è sfuggito il significato della caduta di Bakhmut.

Da Hiroshima a Bakhmut attendendo la controffensiva: un mondo più armato e diviso. Nota geopolitica

La grammatica della divisione regola il linguaggio del nostro tempo. L’ha confermato anche il G7 di Hiroshima. Dal bersaglio della prima delle due atomiche a oggi usate, non è provenuto un monito sulle logiche dell’autodistruzione. Proprio a Hiroshima il premier Kishida ha ripetuto l’intenzione di dotare Tokyo dell’arma nucleare, sebbene il Trattato di non proliferazione del 1970 ne autorizzi il possesso solo ai 5 membri del Consiglio di Sicurezza Onu.

Il vertice ha chiuso la porta a ipotesi di mediazione nella guerra in Ucraina, ignorando il tentativo in atto della Santa Sede – sinora l’unico credibile, giacché di parte davvero terza e interessata esclusivamente alla pace. E non getta acqua sul fuoco l’ingaggio del Giappone nella fornitura di armi, benché la sua costituzione escluda attività di cobelligeranza.

A dare il senso della divisione il concomitante vertice a Xian tra Cina e Paesi dell’Asia centrale dove, tra intese per lo sviluppo e accordi per la Belt and Road, si è ribadita la volontà di contrapporre all’unipolarismo un ordine multipolare inclusivo del Sud globale. Il tutto mentre Lula ha preferito incontrare il leader indonesiano anziché Zelensky a margine del G7, per discutere di lotta alle deforestazioni e al cambiamento climatico.

Il confronto con il resto del mondo ritrae il G7 in un’autoreferenzialità preoccupante. Sul piano demografico, esso raggiunge la metà della sola India. Inoltre, sebbene la sigla indichi le economie più avanzate del pianeta, oggi al gruppo viene contestato il titolo di posture universalistiche, giacché il suo pil non raggiunge il 30% di quello globale, 5 punti in meno dei Brics. Lo “shut up!” rivolto in conferenza stampa a Hiroshima da Biden a un giornalista impertinente rivela il disagio, che ha riguardato anche il lato militare, l’altra faccia dell’hard power.

Agli analisti più disincantati non è sfuggito il significato della caduta di Bakhmut. La vittoria della Wagner, supportata a distanza dall’artiglieria di epoca sovietica, è il primo caso di una milizia privata che batte un esercito regolare armato dall’Occidente collettivo. Contro l’opinione dei suoi generali e del Pentagono – che denunciava la decimazione dei reparti meglio addestrati dalla Nato negli ultimi anni – il governo di Kiev aveva scommesso molto sulla città. La presa, se consolidata, consentirà a Mosca di sigillare la fortificazione dei 1000 km della linea del fronte, condotta tenendo occupato il nemico a Bakhmut, per congelare la dinamica dello scontro e puntare sul fattore tempo in una guerra di attrito. Benché ora Kiev rassicuri parlando di una carneficina utile a fiaccare i russi sacrificando battaglioni ucraini qualitativamente marginali, si tratta di rendere conto della scelta: non solo alle famiglie delle migliaia di ucraini caduti sul campo, ma anche alla Nato, il cui ritmo di fornitura non regge più. Presidenziali in vista, lo sa anche la Casa Bianca, alle prese con il tetto del debito, le contropartite ai repubblicani e gli umori dei contribuenti.

Ogni antiaerea Patriot costa un miliardo di dollari e, come dimostrano le immagini di quella colpita a Kiev dall’ipersonico russo (i blogger che le hanno divulgate sono sotto processo), non è invulnerabile. Il via libera agli F16 dato a Hiroshima non promette molto. I Paesi che li cederanno li sostituiranno con F35 Usa, ma l’addestramento degli ucraini, pur superabbreviato, rimanda i decolli all’autunno. E un centinaio di velivoli non basterà a pareggiare l’aeronautica russa. E per essere efficace, il loro uso aumenterebbe il rischio dello scontro diretto Russia-Nato: dovrebbero essere guidati da piloti esperti, quindi occidentali, agire sul territorio russo e, per sottrarsi ai missili che li distruggerebbero a terra, alzarsi dalle piste polacche e romene.

Le criticità per Kiev non vengono solo dall’aggressione russa. Se l’attesa controffensiva sarà inefficace Zelensky, pur blindato dalla legge marziale, dovrà fronteggiare il fronte domestico. Le elezioni presidenziali e legislative presumibilmente non si svolgeranno, pertanto l’assenza di consultazione popolare lo costringe a rincorrere la legittimità all’esterno, per confermarsi leader indiscusso. Al contempo cerca sponde pretoriane per il controllo interno, pagando pegno agli ultranazionalisti integrati nell’esercito regolare. Significative anche le scelte comunicative del vestiario, che anche a Hiroshima ha riproposto sulla spalla la versione del tridente ucraino con spada introdotta dall’Oun filotedesca negli anni ’30 e riesumata da Pravy Sektor.

Altro segnale di difficoltà è l’incursione nel territorio russo di Belgorod da parte del Corpo volontario russo, fondato da Denis Kapustin (alias Nikitin), imprenditore del marchio White Rex e organizzatore delle “Führer Nights”, nel 2017 trasferitosi da Mosca a Kiev e nel 2019 bandito dalla Ue. Gli autoscatti degli autori dell’impresa ritraggono altri fuoriusciti in mimetica con lo stemma del sole nero. Tra loro Alexei Levkin, leader del gruppo metal Martello di Hitler e fondatore della Wotanjugend, già noto per i plausi alla strage di Christchurch e oggetto di inchieste giornalistiche quando reclutava presso la galassia neonazi europea per conto del Battaglione Azov in Donbass.

Suo malgrado, Zelensky subisce la necessità di ambienti con lui incompatibili. Ma l’Occidente democratico, in un mondo già dolorosamente diviso, farebbe bene a ingiungere rettifiche, per risparmiare all’Ucraina europea di domani il ritorno agli incubi del passato, coltivati nel brodo di odio e distruzione del presente.

Giuseppe Casale*

*Pontificia università Lateranense

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Fonte: Sir