La maternità (invisibile e senza diritti) delle donne vittime di tratta

Lo studio sulle donne romene e nigeriane presentato in occasione della Giornata europea contro la tratta. Intervista a Rafaela Hilario Pascoal: "Servono misure e approcci diversi". Al nord Italia integrazione più facile dal punto di vista socio-lavorativo

La maternità (invisibile e senza diritti) delle donne vittime di tratta

Tra resistenza e vulnerabilità i percorsi di vita di donne e madri nello sfruttamento sessuale di chi è vittima di tratta. E' il tema della ricerca qualitativa di Rafaela Hilario Pascoal raccolta nel volume edito da Springer: “Motherhood in the Context of Human Trafficking and Sexual Exploitation. Studies on Nigerian and Romanian Women”. Lo studio è stato presentato in occasione della 14° Giornata europea contro la tratta di esseri umani.

La ricerca ha richiesto un lavoro di circa 5 anni e interviste a diversi operatori sociali che lavorano in Italia e in Romania.

Com'è nata la ricerca?
E' nata nell'ambito del mio dottorato di ricerca in diritti umani. Iniziata nel 2014, il lavoro si è concluso con la mia tesi nel 2018. Lo studio si è svolto con interviste semi-strutturate a 30 persone che operano sul tema in una prospettiva ampia sia del contrasto alla tratta che dei percorsi di sostegno alle vittime in alcune città d'Italia (Venezia, Bologna, Roma, Napoli, Palermo e Ragusa) e della Romania impegnate nell'agenzia antitratta.

Quali aspetti emergono sul tema?
Il primo aspetto importante è quello che si è fatta finalmente un'analisi su un tema nascosto e poco visibile alla società che è la maternità delle donne vittime di tratta. E' stato difficile potere lavorare su questo argomento perché emerge sul piano dei diritti veramente ancora molto poco. Spesso si guarda alla donna come vittima ma senza pensare a tutta una parte che è legata inevitabilmente ad altri ruoli significativi che vive, come quello in questo caso di essere madre.

Che età hanno queste donne?
Hanno un'età che va dai 18 ai 30 anni. Molte di loro sono madri e si parla pochissimo  di tutta la sfera di diritti che le riguarda. Nelle dinamiche dello sfruttamento sessuale è prevedibile che ci siano situazioni di gravidanza o di aborto. Nello studio, in particolare, è stata fatta una comparazione tra le donne romene e quelle nigeriane rilevando bisogni e caratteristiche diverse sul modo di condurre la maternità.

Quali differenze in particolare?
Le romene sono cittadine europee e in quanto tali, anche se vittime dello sfruttamento sessuale, sono del tutto invisibili. Si tratta di donne che in molti casi sono già madri di figli che hanno avuto nel loro paese, prima di entrare nel giro della tratta. Il legame con i figli a volte diventa proprio un fattore di spinta a farsi sfruttare per mantenere i figli fuori. Si verifica quella che viene chiamata 'la madre sacrificata' che vive la sua maternità a distanza e sviluppa proprio una certa resistenza all'uscita dallo sfruttamento sessuale. Diversamente da come si potrebbe pensare, quindi, avendo anche i loro fidanzati che spesso sono anche gli sfruttatori, queste appaiono più vulnerabili e più resistenti ad uscire dal circuito della tratta sessuale. Per le donne nigeriane è invece tutto diverso perché, anche se possono avere lasciato altri figli in Africa,  nella gran parte dei casi hanno dei figli durante lo sfruttamento nei paesi in cui si trovano. Tutto questo in loro spesso innesca dei meccanismi di protezione verso i figli che le portano anche ad acquisire la consapevolezza graduale di volere uscire dal circuito illegale. In questo caso nei loro confronti, ancora di più se sono dentro i centri di accoglienza, si attiva tutta la rete di protezione sociale che in Italia è prevista dall'art.18. La maternità si è visto quindi che rende queste donne più resilienti ed in grado di farsi aiutare per dedicarsi al nuovo figlio, rimettendosi più in gioco.

Dovrebbe allora essere prevista una modulazione diversa degli aiuti? Certamente occorrerebbe avere misure e approcci diversi. C'è stata una notevole attenzione nei confronti delle donne arrivate dall'Africa rispetto a quelle romene che sono europee a tutti gli effetti ma che risultano spesso completamente invisibili. Va intanto compreso quindi che le vittime della tratta non sono solo donne nigeriane ma appartengono ad altre nazionalità e, fra queste, quella romena è molto rilevante in Italia e in Europa.

Per l'Italia cosa si può dire?
Per la ricerca mi sono mossa in alcune città del nord, del centro e del sud dove esistono delle differenze. L'aspetto principale che emerge è che il livello di integrazione delle vittime di tratta, dopo la fuoriuscita, nelle città del nord Italia è più facile dal punto di vista socio-lavorativo rispetto al centro e sud Italia.

In Romania dove si è svolta la ricerca?
Sono stata a Bucarest, Timișoara e Braşov. Timișoara, essendo vicina alla frontiera con l'Ungheria, nel 2016 aveva uno dei campi con maggior numero di vittime di tratta. Gli operatori hanno raccontato delle difficoltà ad identificare queste donne che vengono reclutate negli altri paesi con una sorta di finto innamoramento con gli sfruttatori come modello strategico della criminalità dell'est. Da ciò diventa più lungo e difficile il percorso per uscirne. A Bucarest c'è stato un caso di una donna  in cui è stato il proprio marito che la sfruttava in Svezia, che ha fatto denuncia ai servizi sociali per toglierle la patria potestà dei figli. I bambini in questo caso spesso diventano strumento di ricatto dello sfruttatore che minaccia le donne in tutti modi nel caso in cui questa volesse cambiare vita. Nel caso in questione la donna è stata identificata come vittima di tratta in Svezia e quindi accompagnata e sostenuta poi nel percorso di protezione come madre dei suoi figli in Romania.

Che lavoro c'è da ancora da fare?
Occorre vedere le vittime di tratta come persone che hanno tanti ruoli in modo da poterle aiutare in una prospettiva di diritti molto ampia. Ci sono le donne nigeriane ma anche tutta la realtà delle romene invisibili perchè cittadine europee. Queste ultime si tende a guardarle come cittadine che hanno accesso ai diritti quando invece vengono sfruttate spesso in tutta la loro invisibilità sociale. Queste donne devono al pari delle nigeriane avere dei fondi dedicati ad attivare tutta la rete di protezione sociale. Per quanto riguarda le nigeriane ci si chiede dove siano finite adesso e che fanno, in tempo di Covid, le 11 mila donne che l'Oim aveva detto che per l'80% erano vittime di tratta.

Che cosa si deve fare per sensibilizzare di più la società su questo tema così delicato?
Occorre, ancora fare a più livelli, un lavoro articolato e capillare sul riconoscimento dei diritti umani fondamentali della persona. Attivare dei percorsi di aiuto reale significa pensare ai diversi diritti che vanno dall'essere madre a quello di avere una occupazione lavorativa nel quadro di uno spettro ampio di tutti i diritti. Adesso la ricerca ha una valenza significativa a livello accademico ma l'auspicio forte resta quello di passare all'azione e cioè ad una fase concretamente operativa. Va quindi acquisita dalle realtà di sistema antitratta la consapevolezza che esiste il problema in tutta la sua gravità e che si devono attivare maggiori strumenti per fronteggiarla se si vogliono dare maggiori risposte.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)