Zamagni: “Il terzo settore sostituisce il welfare paternalistico. Ora pensi ai suoi lavoratori”

L'economista, già presidente dell'Agenzia per il terzo settore, a tutto campo sui dati del “boom” di imprese sociali e non profit: “Tendenza in atto da 15 anni ma non si può lavorare solo in convenzione con lo Stato e in autosfruttamento nelle coop. Il populismo odia i corpi intermedi e vuole togliere libertà al settore”

Zamagni: “Il terzo settore sostituisce il welfare paternalistico. Ora pensi ai suoi lavoratori”

MILANO – Il “boom” di imprese operanti nei settori del welfare e del terzo settore, certificato dalla Camera di Commercio di Milano, è figlio di una precisa “tendenza” che compie quasi 20 anni e della “legge 328 del 2000, le legge Turco, un testo molto innovativo per l'epoca tanto che non è stata applicata nei fatti sin dal principio ma che anticipando i tempi e piantandosi nel tessuto del Paese ha prodotto risultati”. Ne è convinto l'economista Stefano Zamagni, professore dell'Università di Bologna ed ex presidente dell'Agenzia per il terzo settore, punto di riferimento in Italia per la vasta comunità politica, imprenditoriale e associazionistica che si occupa di welfare e sociale. 
Questi dati non sono una novità del 2019 e confermano una tendenza in atto –  – dice Zamagni, commentando il report della Camera di Commercio milanese –. Il mondo del terzo settore o delle imprese sociali ha trovato il modo di compensare e svolgere una funzione surrogatoria della lacuna che si è venuta a determinare nel 2008 con lo scoppio della crisi economica e le ristrettezze della finanza pubblica nazionale e locale”. Per Zamagni questa “è stata una fortuna”, perché è stato recepito lo spirito della legge Turco del 2000 che “introduceva per la prima volta nell'ordinamento italiano il principio di co-progettazione e che, nell'ambito del welfare, dalla sanità alla scuola ai beni culturali o ambientali, bisogna arrivare a far sì che l'ente pubblico e i soggetti della società civile organizzata debbano non solo collaborare ma cooperare”. “Sono concetti diversi – afferma Zamagni –. Il lavoratore dell'impresa capitalistica standard collabora con chi investe i capitali, ma non coopera. Mentre la legge introduce il principio di 'operare assieme': significa che la co-progettazione da entrambi i lati prevede di definire i modi di gestione, di reperimento delle risorse economiche e le priorità negli obiettivi”.

LA SUSSIDIARIETÀ VIENE DA LONTANO

Si chiama “sussidiarietà” e “nasce come principio già nel 1274 in uno scritto di Bonaventura da Bagnoregio in Toscana e si espande nell'Europa pre-capitalistica. Prevede che per soddisfare i bisogni delle persone bisogna trovare modi di cooperazione fra il potere politico, il potere economico e chi rappresenta i mondi vitali della società civile”. Per l'ex presidente dell'Agenzia per il terzo settore il punto di svolta nella contemporaneità è “la crisi dal 2008” che “ha reso evidente come di fronte alle difficoltà della finanza pubblica il principio di sussidiarietà è necessario per mantenere il carattere universalistico del welfare, cioè accessibile a tutti, come non avviene in ogni angolo del mondo, basti pensare agli Stati Uniti. Prima non ve ne era bisogno perché lo Stato aveva risorse, con l'illusione dell'illimitatezza delle stesse, ma quando il freno è stato tirato è servito che il terzo settore aprisse le ali e cominciasse a volare”. 
I numeri della Camera di Commercio mostrano plasticamente questo salto: 70 mila imprese nel settore welfare (+43 per cento dal 2008 in Italia, +58 per cento in Lombardia) e 340 mila istituzioni non profit in tutta la penisola, di cui quasi 55 mila nella sola Lombardia. Ma non è un processo regolare, solo progressivo o privo di intoppi e criticità: “Siamo in una fase di transizione – dice Zamagni –  e guardando in avanti al prossimo ventennio ci dobbiamo domandare come dovrà articolarsi la relazione tra intervento pubblico, quello del terzo settore e il mondo dell'impresa, che è molto avanti sulla via del welfare aziendale con almeno la metà delle imprese italiane che applicano pratiche di welfare interno, alcune in maniera più generosa, altre meno”. 

TRE ATTORI PRIVI DI COORDINAMENTO

I tre attori sono però “privi di un coordinamento” e “l'evoluzione endogena al sistema non deve meravigliarci ma un'evoluzione da jungla. È compito dei soggetti di comunicazione sociale quello di aprire gli occhi, perché così come è adesso non sostenibile”. Per esempio? “Il welfare aziendale c'è solo al nord e al centro Italia e allora un lavoratore del Mezzogiorno non ha quelle coperture del suo omologo settentrionale e può scoppiare il bubbone, con un dualismo sociale intollerabile”. 
Il terzo settore? “Non è pensabile operare solo in convenzione con il pubblico o con convenzioni da due soldi, perché è così che si è arrivati a mal pagare i propri collaboratori, con forme di auto-sfruttamento interno alle cooperative sociali in nome magari di pratiche dall'elevato valore etico”. “Il welfare è e deve essere universalistico, tutti devono avere accesso ai servizi sociali fondamentali, ma la vera questione è come organizzare questa garanzia. Ho motivo di ritenere che nei prossimi tre-quattro anni qualcosa di grosso avverrà su questo fronte anche se la riforma del terzo settore nei fatti è stata boicottata”. Perché? “Perché la politica populista di ogni tipo per sua stessa natura non può accettare un terzo settore autonomo, come non può accettare qualsiasi forte corpo intermedio nella società fra sé e il cittadino”. In questo senso anche fatti di cronaca politica che sembrano slegati da ampi ragionamenti o dettati solo dalla “pancia” - come per esempio il dimezzamento dei costi per chi si occupa di accoglienza ai migranti in Italia – si può leggere alla luce di una maggiore volontà di “controllo statale e dipendenza ulteriore dallo Stato” non tanto sul fenomeno migratorio ma sulla società civile che se ne occupa. “I populisti non vogliono eliminare ogni forma di volontariato o similari, anzi, tutt'altro. Vogliono che ci sia, ma soggetto al controllo del potere politico. Questo non può essere accettato perché è una questione di libertà della società civile”.

LA PROTEZIONE DALL'ALTO? UNA BUGIA

L'intera impostazione del ragionamento di Zamagni sembrerebbe a fare a pugni con una teoria e alcune evidenze molto in voga. Cioè che la crisi economica abbia invece rilanciato la richiesta di “protezione” dall'alto, da parte dello Stato nei confronti dei cittadino come anche alcune tendenze elettorali nei Paesi occidentali sembrerebbero segnalare. Per l'economista questa è però una “bugia” perché “quella della richiesta di protezione dall'alto c'è perché le persone vedono che non esiste un'organizzazione della società che coinvolga tutti i portatori di bisogni, trasformandoli in soggetti del bisogno e non in oggetti, e allora domandano che almeno ci sia uno Stato forte”. “Ma basta parlare per chi è stato in ospedale per sapere che sì, non si paga, ma si viene trattati come numeri”. 
“Purtroppo – afferma Stefano Zamagni – l'idea dominante è che il portatore di bisogno deve essere considerato oggetto della benevolenza pubblica, mentre invece quella persona è soggetto del bisogno e deve contribuire attivamente e concorrere alla definizione delle modalità di ottenimento dei servizi, non accettare criticamente la prestazione senza esprimere opinioni. Chi dorme per la strada può chiedere che qualcuno provveda a lui, ma le persone, se sono persone, non vogliono un welfare paternalistico che nei fatti è immorale perché logora la dignità umana”. In effetti basti pensare alle difficoltà che incontrano alcuni enti locali e città molto ben attrezzate sotto il profilo dei dormitori per senza dimora. Dormitori che però rimangono vuoti per una semplice ragione: le persone non ci vogliono entrare e preferiscono alla brandina e la doccia di un luogo senz'anima, il ciglio della strada e la fontanella di un parco. 
“È questa – chiude l'economista la sua riflessione – una concezione dovuta a cattivi maestri che nei decenni hanno fatto credere che l'ente pubblico possa provvedere a tutto: ma le persone non hanno solo un corpo e uno stomaco. Chi esce da una mensa per poveri non è più affamato ma è arrabbiato, pensa di essere stato umiliato. Anni fa in un film si raccontava la storia di un disoccupato permanente che a fine mese riceveva il sussidio. Lui diceva che con quel sussidio a fine mese ritirava anche la vergogna. Se si giunge a questi livelli la società è incivile”.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)