Affido familiare tra disabilità e povertà, la Garante: "L'Italia è il Paese che allontana meno"

Parla Carla Garlatti. Solo il 20% degli affidamenti è consensuale: “L'allontanamento viene vissuto come uno strappo, non come un sostegno”. Pochi i bambini con disabilità in affido: “Ma ci sono famiglie disposte ad accogliere bambini anche con gravi patologie”. La povertà fa aumentare gli affidi? “Non può essere l'unico fattore. La legge lo vieta”

Affido familiare tra disabilità e povertà, la Garante: "L'Italia è il Paese che allontana meno"

 “L'Italia è il Paese che in Europa allontana meno. Ma questo non è necessariamente un dato positivo, perché può indicare una minore capacità di intercettare il disagio. Fermo restando che la priorità è sempre aiutare il minore a restare nella sua famiglia, l'affido non deve essere però guardato come uno strappo, ma come un aiuto e un sostegno a ritornare e reinserirsi in questa”: così la Garante dell'infanzia e dell'adolescenza Carla Garlatti fa il punto sull'affidamento familiare. Dopo la richiesta del Tavolo nazionale Affido di “una nuova cultura”, che rilanci e riabiliti questa esperienza, sulla quale conoscenze e giudizi sono spesso inadeguati, complici anche racconti di cronaca come quelli, recenti, dei fatti di Bibbiano. Redattore Sociale vuole approfondire il tema, facendo luce su alcune declinazioni particolari dell'affidamento familiare e sulla sua funzione e il suo significato in alcuni contesti particolarmente complicati. Con la garante Garlatti, inizia questo “viaggio” nelle “zone d'ombra” dell'affido familiare, a partire dall'affidamento in contesti di disabilità e di povertà.

Il numero dei bambini con disabilità in affido familiare risulta molto basso, rispetto alla percentuali di quelli che vivono fuori dal proprio contesto familiare. E' una sfida che spaventa anche le famiglie più accoglienti?
I dati più recenti sono forniti dal ministero del Lavoro e risalgono al 2017: ci dicono che, su 100 minori in affido, l'8,3% ha una disabilità. Non si distingue tra disabilità fisica o psichica e non sembra esserci – questo è un dato interessante – differenza sostanziale relativamente alle diverse aree geografiche: le famiglie affidatarie disposte ad accogliere la disabilità si trovano al sud quanto al nord. Va precisato anche che il dato riguarda solo le disabilità certificate, ma certe forme di disabilità emergono col tempo. E' chiaro che occorre una preparazione adeguata per le famiglie che accettano questo tipo di accoglienza: se accogliere un bambino in affidamento o in adozione è sempre un'esperienza complessa, lo è ancor di più quando il bambino porta con sé ulteriori complessità e fragilità. Posso però garantire che questa disponibilità esiste: nella mia esperienza professionale precedente (presidente del Tribunale per i minorenni di Trieste, ndr), ho incontrato coppie disposte ad accettare una disabilità, preferibilmente però “lieve e superabile”, così indicavano nel questionario. Questo non significa però che dopo i corsi di formazione dedicati ai genitori affidatari non cambiassero idea. Proprio poco prima che lasciassi il mio incarico per assumere il ruolo di Garante, una coppia ha accolto una bambina abbandonata alla nascita, che presentava una patologia molto grave. So che la stanno seguendo molto bene, affrontando anche le cure e gli interventi chirurgici necessari.

Accade anche che i genitori di un bambino con disabilità chiedano un aiuto, sotto forma di affido famigliare?
Accade, anche se raramente. Durante il recente seminario organizzato dal Tavolo nazionale affidi, è stata trasmessa la testimonianza di una mamma che ha chiesto aiuto, dopo la nascita del figlio con una grave encefalopatia. Mi ha molto colpito, è stato un racconto bellissimo. Purtroppo solo un quinto degli affidi è consensuale e nasce dall'accordo e dalla sinergia tra famiglia affidanti, servizi e famiglie affidatarie. Anche se pochi, però, questi affidi, nati come richieste di aiuto, ci sono e sono molto importanti: nascono dalla consapevolezza dei genitori di non farcela da soli, di aver bisogno di aiuto. E questo aiuto può essere l'affido, diurno o a tempo pieno, a una famiglia d'appoggio. A questo proposito, va ricordato che purtroppo i servizi sociali sono presenti in modo non sempre adeguato e sufficiente, per cui accade che non siano i servizi a intercettare il bisogno d'aiuto, ma siano le famiglie a doverlo chiedere. E questa richiesta arriva spesso molto tardi.

Che rapporto c'è invece tra affido e povertà? E quanto può, l'impoverimento generato dalla pandemia, determinare un aumento degli affidi familiari?
Prima di tutto, va ricordato che la legge vieta che ci sia un allontanamento per ragioni solamente economiche: se la famiglia ha solo un problema finanziario, questa deve essere sostenuta e il figlio non può essere allontanato. Talvolta si può ricorrere all'accoglienza mamma-bambino, quando non è possibile aiutare il bambino nell'ambito della famiglia. L'allontanamento dal nucleo familiare avviene sempre in contesti fortemente multiproblematici, laddove i diversi aiuti erogati non hanno avuto esito positivo. Certo, accade che in queste famiglie multiproblematiche ci sia anche la povertà economica, cui si affianca la povertà educativa. Qui gli aiuti economici non sono sufficienti a risolvere il problema, perché non vengono canalizzati nella direzione giusta. Un esempio concreto e frequente: il sevizio sociale porta la spesa a domicilio, ma gli alimenti non vengono riposti in frigorifero e vanno a male: questo dà la misura di come la povertà economica da sola non sia motivo di allontanamento, ma può certamente essere uno degli elementi. Per quanto riguarda la pandemia, è certamente vero che il disagio economico si è aggravato, ma non credo che sotto questo profilo abbia inciso. È presto per dirlo ma, da quello che abbiamo visto finora, non c'è stato un aumento degli affidi, piuttosto abbiamo visto una lieve flessione, forse dovuta al fatto che il lockdown ha rallentato o sospeso gli interventi dei servizi sociali. Questo quindi potrebbe essere un effetto collaterale della pandemia: la diminuzione del controllo e della presenza dei servizi nei contesti familiari e, di conseguenza, un possibile calo o ritardo nella rilevazione del disagio.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)