Contro la riduzione a immagine. “La stranezza” ripropone alcune inquietanti domande sul pensiero di Luigi Pirandello

Molte sue novelle tornano ossessivamente su questo apparentemente folle atto di addio al benessere e sprofondamento nella povertà.

Contro la riduzione a immagine. “La stranezza” ripropone alcune inquietanti domande sul pensiero di Luigi Pirandello

“Mi basta, dentro il mio cuore, sapere che non ho mai voluto nulla per me dal mio lavoro, e che sono uno strumento puro, credo, nelle mani di Qualcuno sopra di me e di tutti. Il resto non ha importanza”.
Sono parole di Luigi Pirandello dirette a Pietro Mignosi, un critico che aveva colto gli aspetti religiosi della sua opera. La riscoperta del grande scrittore e drammaturgo anche grazie alla risonanza mediatica del film “La stranezza”, diretto da Roberto Andò che vede Toni Servillo nei panni dell’autore del Fu Mattia Pascal e Ficarra e Picone in quelli di due becchini amanti del teatro, riapre molte questioni mai completamente risolte, e, tra queste, quella del rapporto con la fede dello scrittore siciliano. Per alcuni un rappresentante della più bell’acqua del panteismo spinoziano, vale a dire di una natura vista essa stessa come divina, per altri nichilista puro, della serie la vita non ha alcun senso, per altri ancora ateo devoto, se non proprio unicamente ateo.
In realtà l’autore si era più volte cimentato in confessioni di assoluto rispetto per la Chiesa (il che non vuol dire però essere credente) o, come nelle parole poste in apertura, di riconoscimento, o magari semplice “sospetto” di un Oltre. Sulle pagine di Sir abbiamo già fatto notare come in Uno nessuno e centomila la scena finale ricalchi per molti versi la spoliazione di san Francesco, ma il fatto è che non è solo nel suo ultimo romanzo che Pirandello affronti il motivo della rinuncia ai beni: molte sue novelle ( e poesie giovanili, basterebbe rileggersi “L’invito”) tornano ossessivamente su questo apparentemente folle atto di addio al benessere e sprofondamento nella povertà. Un “antico” libro di Franco Zangrilli, Pirandello. Le maschere del “vecchio Dio” (Edizioni Messaggero Padova, 2002) ci offre una panoramica impressionante: Quand’ero matto, ad esempio, con Fausto Bandini che si rovina elargendo le sue ricchezze a poveri -ma anche ad approfittatori-, o Canta l’epistola, con il prete spretato che preferisce il contatto con la natura-madre, motivo che torna anche in Filo d’erba, in Il giardinetto lassù e in Padron Dio, solo per fare qualche esempio.
Verissimo, il clero pirandelliano è spesso, anche se non sempre, ritratto come formalistico, dogmatico o legato ad interessi unicamente materiali, ma ci sono, d’altra parte, temi narrativi che hanno fatto pensare alla ricerca del paradiso perduto, come nel caso di La nuova colonia, o a quello della resurrezione come in Lazzaro: in poche parole, qualsiasi sia la posizione dello scrittore rispetto alla fede, Dio, gli interrogativi sulla sua azione nel mondo, il creato visto come Eden da ritrovare dentro e fuori di noi sono sempre presenti nella sua opera.
Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno nessuno e centomila parla di un Dio dentro di noi da opporre a quello fuori di noi e più volte la ricerca di senso dei suoi personaggi impatta con il muro di una religione fatta solo di formule e di esteriorità.
Il fatto è che gli anni di Pirandello sono gli stessi del tramonto del positivismo e delle sue certezze materialistiche, che però aveva lasciato in eredità a molti non nuove certezze, come accadrà in Rebora, nell’Ungaretti post-ermetico, in Federigo Tozzi, in Claudel, in Eliot, ma il relativismo, il dubbio, il “se” e il “ma”. Allora dovremmo seguire il pensiero di un filosofo che Pirandello aveva ben presente, Henri Bergson, che metteva in luce il fluire continuo di un’esistenza in perenne cambiamento, come i personaggi e le medesime convinzioni di Pirandello.
Nessuno scrittore è mai rimasto fermo in una sua opera, ma ha manifestato cambiamenti che, tra l’altro sono solo in parte espressi nelle sue opere. E in questo, Pirandello e Bergson ci danno una bella mano per non cadere nei rischi che l’attuale cultura dell’apparire presenta a giovani e non giovani: la corsa a lasciare un’immagine bellissima, una laica icona, che non è mai espressione reale dell’eterno divenire di una vita non catalogabile. E non riducibile a mille like.

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Fonte: Sir