Una doppia origine. Nuove acquisizioni sull'origine del morbo di Parkinson

Secondo gli studiosi danesi esisterebbero in realtà due varianti diverse della "malattia di Parkinson", una con origine nel cervello e l'altra con origine nell'intestino.

Una doppia origine. Nuove acquisizioni sull'origine del morbo di Parkinson

Tra le patologie ancora da sconfiggere figura anche il “morbo di Parkinson”, una malattia neurodegenerativa a lenta evoluzione, caratterizzata da disturbi nel controllo del movimento e nell’equilibrio (i classici tremori, l’incertezza nella camminata, l’instabilità posturale). Di questa patologia conosciamo già con certezza alcuni aspetti, mentre altri rimangono ancora oscuri, richiedendo ulteriori sforzi da parte della ricerca scientifica per essere chiariti e superati. Tra le certezze già acquisite, l’evidenza di come il Parkinson sia caratterizzato dall’accumulo di una proteina (“l’alfa-sinucleina”) che danneggia le cellule nervose, in particolare i neuroni di un’area chiamata “substantia nigra” (struttura encefalica posta al confine tra “piede” e “segmento” del mesencefalo), implicata nell’esecuzione di molte funzioni motorie e nella produzione del neurotrasmettitore “dopamina”.

Ora, uno studio (pubblicato sulla rivista “Brain”) condotto da un gruppo di ricercatori della Aarhus University, in Danimarca, aggiunge nuove ed importanti conoscenze sull’argomento. Secondo gli studiosi danesi, infatti, esisterebbero in realtà due varianti diverse della “malattia di Parkinson”, una con origine nel cervello e l’altra con origine nell’intestino. La possibilità di questa doppia forma patologica spiegherebbe anche l’ampia gamma di sintomi accusati dalle persone colpite da questa condizione, suggerendo al tempo stesso nuove possibilità terapeutiche.

Dunque, sarebbero due le vie possibili che portano all’accumulo intracellulare dell’alfa-sinucleina. A questa conclusione i ricercatori sono giunti sottoponendo 37 pazienti affetti da Parkinson, o considerati “a rischio di Parkinson” (in quanto, ad esempio, affetti da disturbi nel sonno Rem, un tratto che può anticipare l’esordio della malattia), a tomografia a emissione di positroni (Pet) oppure a risonanza magnetica (Mri). Proprio i dati ottenuti hanno evidenziato due possibili percorsi nell’esordio di questa malattia, corrispondenti ad altrettante sue varianti. Più in particolare, in alcuni pazienti esaminati gli studiosi hanno riscontrato un evidente danno a carico dei neuroni della dopamina, prima ancora che insorgessero danni al cuore e all’intestino (che rappresentano alcuni dei problemi non motori tipici del Parkinson). In altri pazienti, invece, Pet e Mri hanno evidenziato danni al sistema nervoso dell’intestino (incaricato di governare le funzioni digerenti) e al cuore ancora prima che comparissero danni al cervello. In coerenza con queste evidenze, i ricercatori hanno denominato queste due varianti “brain-first” e “body-first”, confermando così l’ipotesi da tempo accampata da altri studiosi sull’esistenza di più di una forma del “morbo di Parkinson”.

Ma oltre ad aver fornito nuove e fondamentali conoscenze in materia, questo “studio longitudinale” (ovvero, che segue l’evoluzione dei soggetti nel corso degli anni) ha anche il merito di aver aperto nuove prospettive in chiave terapeutica.

Da tempo, infatti, è noto agli scienziati che le persone affette da Parkinson mostrano un microbiota intestinale (l’insieme dei microrganismi contenuti nell’intestino umano, capaci di sintetizzare per noi vitamine e altre sostanze che aiutano il nostro organismo a svolgere le proprie funzioni quotidiane) con una composizione particolare, diversa rispetto ai soggetti sani. Ebbene, nel caso della variante “body-first”, per esempio, si potrebbe cercare di indagare se esistano modi di arginare la malattia, prima che partendo dal sistema nervoso “enterico” (cioè dell’intestino) arrivi a coinvolgere il cervello. Più difficoltoso, invece, risulta l’ipotesi di sviluppare interventi precoci per le forme “brain-first”, dal momento che queste rimangono di solito prive di sintomi fino alla comparsa dei disturbi del movimento. A quel punto, però, più della metà dei neuroni della dopamina risultano già compromessi, rendendo più arduo rallentare il decorso della malattia.

Alla luce di queste nuove acquisizioni, dunque, attendiamo gli sviluppi futuri della ricerca in questo campo per la speranza di guarigione di tanti malati di Parkinson.

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Fonte: Sir