La famiglia migrante, tra integrazione e pastorale specifica
Le famiglie migranti entrano con forza nel recente documento papale Amoris laetitia. Si trovano abbastanza all’inizio, nel secondo capitolo, e a ridosso dell’introduzione, dove il papa ha un’affermazione importante, specie di questi tempi: «Non sono un problema; sono principalmente un’opportunità».
Per leggere il servizio iscriviti gratuitamente al sito.
Le famiglie migranti entrano con forza nel recente documento papale Amoris laetitia.
Si trovano abbastanza all’inizio, nel secondo capitolo, e a ridosso dell’introduzione, dove il papa ha un’affermazione importante, specie di questi tempi: «Non sono un problema; sono principalmente un’opportunità».
Difatti il papa scrive che «la mobilità umana può rivelarsi un’autentica ricchezza tanto per la famiglia che emigra quanto per il paese che la accoglie» (n. 46).
Fa allo stesso tempo delle precisazioni, che riguardano i problemi di sempre, e che pongono i migranti nella situazione di chi deve essere aiutato: famiglie traumatizzate da guerre, da ingiustizie, e da viaggi drammatici; persone schiavizzate nei turpi affari della tratta degli esseri umani; donne e bambini segnati dalla lunga permanenza nei campi profughi.
Nel suo recente viaggio nell’isola di Lesbo per abbracciare le famiglie di profughi, come nel primo viaggio apostolico a Lampedusa, il papa ha messo l’aiuto e l’accoglienza dei migranti tra le priorità della società civile e delle comunità cristiane.
Una prospettiva ulteriore e urgente Francesco la indica nell’integrazione dei migranti. L’ha detto chiaramente nell’intervista rilasciata durante il viaggio di ritorno dall’isola di Lesbo: «Oggi l’Europa deve riprendere la sua capacità di integrare. C’è bisogno di una educazione alla integrazione».
Questa stessa urgenza si trova espressa nell’esortazione post sinodale, dove la parola integrazione, quando è rivolta ai sacerdoti e alle comunità cristiane, prende il nome di “pastorale specifica”.
Ecco cosa scrive il papa sempre al n. 46: «L’accompagnamento dei migranti esige una pastorale specifica. Ciò deve essere attuato nel rispetto delle loro culture, della formazione religiosa ed umana da cui provengono, della ricchezza spirituale dei loro riti e tradizioni». Ora, questa indicazione non è assolutamente nuova.
Le chiese europee, e prime tra tutte la chiesa italiana, hanno nel loro patrimonio storico proprio questa capacità di avere una cura pastorale specifica per i migranti.
È una storia che affonda le sue radici alla fine dell’Ottocento, quando il fenomeno della “Grande migrazione” spostava interi popoli dalle terre europee alle terre d’oltreoceano.
Allora anche la chiesa italiana aveva attuato una “pastorale specifica” nei confronti degli emigrati italiani: aveva mandato sacerdoti italiani nelle terre di emigrazione, con l’idea che la fede si mantiene se è trasmessa attraverso la propria lingua e la propria cultura. Poi, pian piano, questi stessi sacerdoti avrebbero aiutato i migranti a inserirsi nella chiesa del posto e nella società ospitante, secondo quello che ai nostri giorni è chiamato “percorso di integrazione”.
Questo stesso percorso, da più di trent’anni, viene fatto in Italia per le comunità dei migranti, e si è espresso attraverso particolari strutture pastorali.
Vale a dire che le diocesi si prendono cura che le comunità cristiane di diversa lingua e di tradizioni diverse siano accompagnate da sacerdoti delle stessa lingua e della stessa cultura. Poi, pian piano, si inseriranno nella cosiddetta pastorale ordinaria e non avranno più bisogno di una cura pastorale particolare per loro.
Se il papa richiama questa attenzione particolare per i migranti lo fa perché c’è n’è bisogno, specie in un tempo in cui anche le comunità cristiane rischiano di livellare i discorsi sui migranti al gergo della strada.
Per i parroci, invece, è sufficiente la "minaccia" contenuta al n. 30 dell’istruzione pontificia De Pastorali Migratorum Cura (1969): «L’assistenza spirituale di tutti i fedeli, e quindi anche dei migranti, che risiedono nel territorio di una parrocchia, ricade soprattutto sui parroci, che dovranno un giorno render conto a Dio del mandato eseguito».