Assemblea Caritas. Migrazioni, non giriamo gli occhi da un’altra parte. Gli interventi di Oliviero Forti e Alessandra Morelli

Assemblea Caritas. Oliviero Forti (Caritas italiana) e Alessandra Morelli (Unhcr) hanno presentato gli scenari dell’emergenza umanitaria in Afghanistan, inserendola nei risvolti generali del fenomeno migratorio. In Afghanistan hanno fallito la guerra e l’esercito... ma non ha fallito la prossimità, l’amicizia, il dialogo. La catastrofe umanitaria c’era già prima, noi dobbiamo creare dei luoghi dove il dialogo sia possibile. Dove cominciare a respirare speranza

Assemblea Caritas. Migrazioni, non giriamo gli occhi da un’altra parte. Gli interventi di Oliviero Forti e Alessandra Morelli

Nel bel mezzo dell’estate i riflettori si sono accesi sull’Afghanistan. Qualche settimana di attenzione, poi la cosiddetta “opinione pubblica”, distratta e volubile come al solito, si è presto gettata su altri argomenti. Ma l’emergenza dell’umanità calpestata in un angolo desolato del mondo – un’umanità che già da decenni era calpestata – non cessa di rimanere tale quando gli occhi del mondo si girano da qualche altra parte. Ed è proprio per questo che i riflettori non si possono, non si devono spegnere. L’assemblea della Caritas diocesana di Padova di sabato 16 ottobre – la prima in presenza dopo un anno e mezzo di Covid – intitolata “Verso un ‘noi’ sempre più grande”, ha aiutato i presenti nel Seminario minore di Rubano a comprendere non solo ragioni e scenari dell’emergenza afghana, quanto i risvolti generali dei fenomeni migratori, che interessano tutto il mondo e che mantengono la loro drammatica attualità anche e soprattutto dopo la pandemia.

Anche, e soprattutto, all’interno delle nostre comunità ora più che mai con le porte spalancate sul villaggio globale. Due gli esperti intervenuti: Oliviero Forti, direttore dell’Ufficio politiche migratorie e protezione internazionale di Caritas italiana, e Alessandra Morelli, fino allo scorso settembre responsabile dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati-Unhcr. «Nel mondo ci sono 280 milioni di persone che si spostano in Paesi diversi – ha spiegato Forti – e si spostano per ragioni non sempre legate alle guerre, alle pandemie e alle persecuzioni. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, sono migrazioni legate alla volontà di migliorare le proprie condizioni di vita». Questi 280 milioni di persone però non rappresentano tutto il fenomeno migratorio mondiale: dal computo totale infatti sono esclusi coloro che si spostano all’interno di uno stesso Paese. Negli ultimi vent’anni il fenomeno delle migrazioni ha avuto un incremento importante: «Ci si sposta di più perché è più facile muoversi, ma sono anche aumentate le crisi internazionali che alimentano le migrazioni forzate». Un mito da smontare – ben lungi a morire – è che sia l’Europa la meta della maggior parte delle migrazioni. Nulla di più falso. «La maggior parte delle persone si muove all’interno della stessa regione geografica, e la maggioranza delle persone si muove all’interno del continente africano, spostandosi da un Paese all’altro, spesso quello vicino, economicamente più sostenibile».

È anche falso che siano i più disperati tra i disperati a muoversi: «Il 63 per cento dei migranti si sposta da Paesi a reddito medio. Bisogna avere delle risorse per muoversi. Chi si sposta invece perché sfollato, per fuggire a guerre e persecuzioni lo fa verso Paesi vicini nella stessa regione». L’intervento di Oliviero Forti è servito anche a comprendere quanto “l’emergenza Afghanistan” vissuta in agosto non fosse che un singolo atto di una tragedia assai più lunga, una singola tragedia in un mare di tragedie: «Oggi la moda è l’Afghanistan, ma nel mondo vi sono situazioni altrettanto e forse più gravi». Etiopia, Siria, Myanmar, Somalia, Sud Sudan le stazioni di questa straziante Via Crucis globale. Per l’Afghanistan, quarant’anni di disastri iniziati con il tentativo di invasione sovietica e proseguito poi con il fondamentalismo talebano, alleato, in un primo momento, con gli americani e poi culla degli attentati dell’11 settembre. «Due milioni e 700 mila sono i profughi afghani, ma sono il frutto di questi decenni». Questi rifugiati si trovano in Pakistan, Turchia, Iran, solo una minima parte arriva in Europa. E non si vedono all’orizzonte grosse ondate migratorie, dato che i talebani hanno serrato i confini.

Se gli Stati Uniti si sono ritirati, la Russia, la Cina, ma anche Turchia, Iran e Pakistan mantengono alto l’interesse per l’Afghanistan, Paese poverissimo ma dalla posizione strategica e dalle enormi risorse minerarie. Forti ha anche enfatizzato la scarsa preparazione dei ponti aerei per chi aveva collaborato con gli eserciti occidentali: «Dello smantellamento si sapeva da gennaio, perché si è arrivati a gestirlo in agosto?». Ed è amaro anche il trattamento di questi funzionari afghani e delle loro famiglie, una volta giunti in Italia, inseriti nello stesso circuito di accoglienza degli altri migranti. «L’Afghanistan si trova oggi a vivere una realtà ancora più difficile – ha continuato Alessandra Morelli – Deve fare i conti con la frammentazione all’interno del Paese. Abbiamo conosciuto i talebani come gruppi terroristici, ma ce ne sono altri contrapposti come l’Isis, il cui obiettivo è colpire la quotidianità delle persone. I terroristi oggi non colpiscono i target militari, ma colpiscono i civili. E questo ne provoca la fuga». Tutto il contrario del 2003, quando Alessandra Morelli arrivò per la prima volta in Afghanistan dopo l’invasione americana. «Si diceva: “I talebani si sono ritirati, la vita riprende”. In quel periodo un milione di rifugiati afghani fece ritorno a casa dal Pakistan e dell'Iran».

Un segnale di speranza, ma di breve durata: «Già tra 2005 e 2006 questa speranza cominciava a venire meno. La Nato espandeva le sue operazioni, ma seguivano sempre attacchi dei talebani e lo spazio di operatività per noi operatori umanitari si restringeva sempre di più. Ho perso nove colleghi in Afghanistan, e seppellire dei colleghi non è facile, specie quando sei il capitano al timone». E ora che i talebani stessi subiscono gli attacchi dell’Isis, si possono fare i primi conti: «In Afghanistan ha fallito tutto: la guerra, l’esercito... ma non ha fallito la prossimità, l’amicizia e il dialogo. Se oggi le donne continuano a lottare per i loro diritti, in strada, con gli striscioni, è perché con l’amicizia e la sorellanza hanno capito quanto valgono. La catastrofe umanitaria in Afghanistan c’era già prima, noi dobbiamo creare dei luoghi dove il dialogo sia possibile». Anche con i talebani? Anche con i talebani: «Il grande esempio ce lo dà Francesco d’Assisi, che si è imbarcato a parlare con il sultano trovando nel dialogo un’alternativa alle Crociate. La speranza, anche oggi, è quella di creare uno spazio di dialogo per garantire il minimo dei diritti e costruire piccoli luoghi dove cominciare a respirare speranza. Più di questo, non vedo».

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