Facciamo verità! Nella carità. Lo stile del nostro dissenso

C'è un virus comunicativo, che intacca ogni relazione, rendendola un duello

Facciamo verità! Nella carità. Lo stile del nostro dissenso

L’insegnante sta spiegando alla lavagna un argomento alquanto complesso e richiama l’attenzione della classe, sottolineando la cosa con un lapidario «altrimenti non ci capite nulla». Sia stato il tono o la tensione in classe, fatto sta che dal banco una ragazza alza la mano e sbotta: «Mi spiace, ma non siamo noi che non capiamo, è lei professore che è un incapace e non sa insegnare».

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Il collega dimostra un invidiabile sangue freddo: non si adombra e non reagisce, ma semplicemente ripone il gesso, sposta la sedia vicino alla contestatrice e in tono conciliante le dice: «Parliamone». La discussione tra i due si fa serrata, ma un po’ alla volta si chiariscono le cose. Emerge, con l’aiuto della classe, che la questione non sta tanto nella possibilità o meno di esprimere un’osservazione o una critica sulle modalità didattiche di un docente, quanto nella scelta del modo per comunicare tale dissenso. Succede così che alla fine del dialogo, l’alunna deve riconoscere d’aver usato espressioni inappropriate e offensive, le quali sicuramente erigono un muro di diffidenza nella relazione, ma anche rendono non ricevibile, quindi inefficace, la critica stessa.

Chi ci ha condiviso questo aneddoto, un docente compresente ai fatti in aula, non ha saputo dirci come sia andata a finire la storia, ma indubbiamente con il suo racconto ha rivitalizzato un corso d’aggiornamento che volgeva al coma. Il caso infatti è di quelli delicati e necessita di un discernimento. Nel cerchio dei partecipanti, tutti docenti, emergono stimolanti questioni.

Il professore si sarebbe fermato dinanzi a una critica più garbata? E quell’insegnante non è stato troppo comprensivo? Non era il caso, da parte dell’adulto, di porre un gesto più drastico, che segnalasse in maniera chiara che si era passato il segno? Qui, ciascun di noi fa i conti con la sua realtà educativa, perché ogni contesto prevede una diversa modalità d’azione. Resta il fatto che se vuoi insegnare qualcosa, prima lo devi testimoniare. Se a quel docente premeva che l’alunna e la classe apprendessero uno stile pacato e rispettoso, anche nel comunicare la propria contrarietà, difficilmente avrebbe raggiunto il suo obiettivo alzando la voce e imponendosi d’autorità.

A questo punto la mia attenzione si stacca dalla discussione e il pensiero comincia a vagare. Ed è qui che si fa sentire un sassolino che riposava nella scarpa: qual è lo stile del nostro dissenso? Riavvolgendo il nastro delle discussioni quotidiane, c’è da chiedersi quale sia il vero obiettivo di certe frasi, o cosa si nasconda sotto gli eccessi di livore. Spesso non c’è la voglia di convincere l’altro della bontà della nostra obiezione, quanto piuttosto si desidera vincere, quasi per affermare una presunta superiorità.

Non c’è luogo di vita che non veda il diffondersi di questo virus comunicativo, che intacca e incrina ogni relazione, rendendo il confronto interpersonale un continuo ed estenuante duello. Riunioni e assemblee divengono un ring, dove non c’è il concorrere vivace e dialettico verso la verità, ma la ricerca dell’umiliazione altrui. Anche la vita ecclesiale non sembra immune da questa patologia. C’è da chiedersi, per esempio, quale spirito evangelico animi i recenti attacchi e contestazioni, a volte plateali altre volte più velati, a papa Francesco. La differenza di idee e il loro confronto, anche critico, sono la condizione necessaria perché si possa crescere come singoli e come comunità, a patto però che si tenda a «fare la verità nella carità».

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