Salmo 77. La fede ci interpella non come se dovessimo ripetere una formula matematica, ma piuttosto facendo memoria

Quando avvertiamo una lontananza dal Signore, se sondiamo con onestà il nostro cuore dobbiamo riconoscere che la responsabilità è nostra.

Salmo 77. La fede ci interpella non come se dovessimo ripetere una formula matematica, ma piuttosto facendo memoria

È veramente vitale nell’uomo la capacità di ricordare, il fare memoria e ce ne accorgiamo, spesso, quando, purtroppo, per l’età o per una malattia, la memoria viene meno. Il salmo 77 è un lamento notturno di un uomo nell’angoscia che, proprio attraverso la rievocazione del passato, si muta in un inno sui prodigi compiuti dal Signore. “Nel giorno della mia angoscia io cerco il Signore, nella notte le mie mani sono tese e non si stancano; l’anima mia rifiuta di calmarsi” (v. 3). Inizialmente sembra che andare indietro nel tempo non aiuti a trovare pace: “Mi ricordo di Dio e gemo, medito e viene meno il mio spirito. Tu trattieni dal sonno i miei occhi, sono turbato e incapace di parlare” (vv 4-5). Chi prega medita cercando di farsi forza attraverso la melodia di un canto intonato in anni lontani (cfr. vv. 6-7), ma poi sgorga dal profondo una domanda lacerante: “Forse il Signore ci respingerà per sempre, non sarà mai più benevolo con noi? È forse cessato per sempre il suo amore, è finita la sua promessa per sempre? Può Dio aver dimenticato la pietà, aver chiuso nell’ira la sua misericordia?” (vv. 8-10) Il confronto con un passato felice non è di per sé consolatorio rispetto ad un presente buio e faticoso, anzi, l’anima impaurita si interroga chiedendosi se Dio ci abbia abbandonato. È in questa profondità, oltre alla quale non sembra possibile andare, che la memoria lascia spazio alla coscienza ed essa rivela all’uomo la verità della sua debolezza. Non è Dio che ha interrotto la sua benevolenza, ma sono io, siamo tutti noi che abbiamo dimenticato i suoi benefici e per questo, forse, abbandonato la sua via. Quando avvertiamo una lontananza dal Signore, se sondiamo con onestà il nostro cuore dobbiamo riconoscere che la responsabilità è nostra. Questa conversione maturata nella sofferenza cambia tutta l’intonazione del salmo che da questo punto si tramuta in un inno che, dando del “tu” a Dio, ne esalta la potenza misericordiosa: “Ricordo i prodigi del Signore, sì, ricordo le tue meraviglie di un tempo” (v.12). Da qui al termine del componimento l’ebreo fervente rievoca con immagini grandiose le opere compiute da Dio che, fin dalla creazione, ha dominato il male e le forze avverse, di cui le acque e gli abissi nella Bibbia sono sempre metafora, fino al passaggio del Mar Rosso e alla liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù in Egitto (vv. 13-21). Questo salmo, come tanti altri, è molto probabile che fu pregato da Gesù prima della sua passione e ancora oggi è al centro della liturgia delle ore il mercoledì santo; se, dunque, anche il Figlio di Dio, nella sua umanità pur senza peccato, ha potuto sperimentare la paura dell’abbandono del Padre, come meravigliarci che questo non sia successo ai discepoli e succeda abbondantemente a noi nella nostra vita? Anche gli apostoli non riconobbero Gesù durante la tempesta quando egli venne loro incontro camminando sulle acque; anche loro, sconvolti per la sua morte in croce, ebbero bisogno di “ricordare” le parole di Gesù per credere nella sua resurrezione. Quando recitiamo questo salmo, dunque, possiamo anche noi ammettere che credere nel Signore e riconoscere, spesso con fatica, le sue costanti orme nella nostra storia (cfr. v. 20) non è come tirar fuori dalla tasca un documento d’identità che dichiari una volta per tutte che siamo cristiani. La fede ci interpella non come se dovessimo ripetere una formula matematica, ma piuttosto facendo memoria in un modo così vero e profondo da riattualizzare ogni volta il nostro incontro con un Dio che è parola sempre nuova e persona sempre viva.

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Fonte: Sir