Una povertà “diversa”. Alcuni esempi di scelte di vita semplice e naturale ci fanno riflettere sulla concezione dell’esistenza

Non si tratta di bacchettare quel tipo di vita, ma di constatare come siano praticabili altri modelli non necessariamente ideologici e/o politici in senso stretto.

Una povertà “diversa”. Alcuni esempi di scelte di vita semplice e naturale ci fanno riflettere sulla concezione dell’esistenza

“Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?”. Le ricorrenti citazioni di questo passo di Matteo (6, 25), accompagnate spesso dal riferimento seguente agli uccelli del cielo che non ammassano nei granai ma vengono lo stesso nutrite dal “Padre vostro celeste”, avrebbero dovuto mettere in guardia contro un modello di vita che già negli anni Cinquanta veniva apostrofato come consumistico. Non si tratta unicamente di bacchettare, come da tradizione, quel tipo di vita, ma di constatare come siano praticabili altri modelli non necessariamente ideologici e/o politici in senso stretto. Non è un caso che oggi si parli ancora di quella Decrescita Felice auspicata da Serge Latouche che sta tentando di arginare la tendenza mondiale alla produzione indiscriminata di merci a danno dell’ecosistema, ripresa in Italia da Maurizio Pallante che ha messo in evidenza come “il Pil non misura il benessere, ma il tantoavere” (in “Solo una decrescita felice può salvarci”, con Alessandro Pertosa, Lindau). Quella della sostenibilità è una questione che in realtà è stata affrontata assai prima della teoria della Decrescita: basti pensare a Thoreau e alla sua esperienza di vita assolutamente naturale sul lago Walden, e siamo nel XIX secolo, ma anche ad altri che si sono posti il problema del ritorno ad una vita a misura d’uomo e di natura.

Questione assai antica, che è tornata alla nostra attenzione -avrebbe dovuto esserlo sempre, se solo fossimo stati più accorti- attraverso l’ammonizione e il modo stesso di vivere, lontano dagli agi e dalle inutili comodità, di Gesù, ma che anche in oriente, basti pensare alla scelta di Gautama Buddha di lasciare gli agi della ricchezza familiare, ha suscitato grandi interrogativi e radicali scelte. La più -e giustamente- conosciuta da noi è quella del Francesco di Bernardone del prima della conversione e del cambiamento, talmente ripresa non solo da film, opere musicali, teatro, ma anche nell’esistenza quotidiana da gente che si è disfatta di tutto per tornare a vivere al di là delle merci, che è superfluo riparlarne qui.

Oggi, ad esempio, l’uscita di un libro dedicato all’affascinante figura di Leon Bloy (1846-1917), “Il grande inquisitore”, scritto da Giuliano Vigini per i tipi dell’editrice Medusa, riapre la questione. Bloy, scrittore e poeta convertitosi al cattolicesimo dopo un periodo di aggressivo ateismo, è un antimoderno, secondo la definizione di Antoine Compagnon, per eccellenza: si scagliava con tutte le sue forze contro il conformismo borghese, l’accumulazione del denaro, il culto del successo, e praticava realmente nella sua vita questo rifiuto di un’esistenza asservita al potere politico ed economico: viveva poveramente, a volte non poteva neanche permettersi di indossare capi essenziali di vestiario.

Ma non è stato l’unico: Paul Reverdy (1889-1960), uno dei maestri riconosciuti del surrealismo e protagonista assoluto della poesia francese del Novecento, scelse di passare la sua vita dopo la conversione -più di trent’anni- nei pressi dell’abbazia di Solesmes, in assoluta povertà. Per non parlare di un altro maestro della poesia del Novecento, Velimir Chlebnikov (1885-1922), investito dalla tempesta rivoluzionaria in Russia e dalla guerra civile tra rossi e bianchi, morto di stenti durante i suoi vagabondaggi, lasciando una poesia-testamento che dovrebbe farci riflettere oggi sul concetto effettivo di povertà:

Poco, mi serve,
una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole.

Dovremmo davvero riflettere su questi esempi, e soprattutto su quello che per noi dovrebbe essere primario, la vita stessa del Cristo, perché ci siamo troppo fissati su un sogno di perbenismo e benessere che, a lungo andare, mostra non solo le sue crepe di compatibilità con la natura, ma anche la sua lenta erosione da parte di altri pensieri non solo ecologici, che si richiamano ad una vita diversa, alternativa, e non sempre in modo pacifico.

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Fonte: Sir