Unità pastorale all’Arcella. Operatori e volontari, a fare la differenza è la relazione

Le persone senza dimora accolte proprio nel cuore delle comunità. Conta molto più lo “stare” che il “fare”

Unità pastorale all’Arcella. Operatori e volontari, a fare la differenza è la relazione

Una vecchia canonica, un vecchio appartamento del sacrestano, alcuni locali nelle strutture parrocchiale. In ciascuna delle tre parrocchie che comprendono l’unità pastorale all’Arcella in Padova – San Bellino, San Filippo Neri e Santissima Trinità – queste strutture che appartengono alla comunità cristiana diventano strumento attivo di carità verso gli ultimi degli ultimi. Una mano tesa, una casa prima di tutto, un tetto sopra alla testa per un periodo nel quale – con l’aiuto di tutti – riprendere in mano la propria vita e proiettare davanti a sé un futuro possibile verso il quale riprendere il cammino.

«Insieme a Caritas e al Gruppo R – racconta don Marco Galletti, parroco in solido dell’unità pastorale – accogliamo persone che sono “a un passo dall’autonomia”. Si tratta cioè di persone che hanno bisogno di un luogo dove “potersi concentrare” e ricostruire una vita autonoma». Accanto agli operatori, un grande lavoro è svolto da un gruppo affiatato di volontari. Gli educatori professionali si prendono in carico tutta la gestione burocratica e il progetto personale dei singoli individui nel reperimento e nel perseguimento di possibilità lavorative. I volontari, espressione delle parrocchie, si occupano invece della vita quotidiana delle persone accolte, comprese relazioni, opportunità di inserimento sociale e della gestione della casa.

«Questi appartamenti – osserva don Marco Galletti – si trovano proprio nel cuore della comunità. Ed è questa la cosa bella: sono nate delle belle relazioni con chi è venuto qui, molti hanno mantenuto, anche dopo la loro permanenza, un legame con i volontari e con tutta la comunità. Gli educatori sono certamente importanti, perché con la loro professionalità riescono a trovare per le persone assistite delle strade a cui mai persone comuni riuscirebbero a pensare, ma sono i volontari a spalancare per queste persone le porte della comunità». Questa forma di volontariato chiede ai parrocchiani di “stare”, molto più che “fare”: «Chi arriva non sempre è disponibile ad aprirsi. C’è chi sospetta di tutto. Serve tempo. Nella relazione poi nascono occasioni per mettersi in gioco: ci sono volontari che hanno coinvolto gli ospiti in passatempi, altri che hanno portato le persone che sono venute ad abitare qui a collaborare nelle sagre e nelle feste paesane. Sembra poco, ma questo edifica e dà coraggio, permette di recuperare la fiducia in sé stessi anche ai più scoraggiati. Il volontario si occupa proprio di questo».

Lo si fa nel modo più semplice, nell’accompagnamento alla vita ordinaria: «C’è una volontaria che accompagna un ospite a fare una visita, un’altra sta verificando che un altro ospite prenda le medicine ogni giorno, un’altra, quando va a passeggiare con il cane, si presenta in appartamento per vedere come va. Ma è proprio in questa ordinarietà che si fanno le grandi cose».

È insomma la cronaca giornaliera di quella Chiesa ospedale da campo di cui parla papa Francesco. Don Marco Galletti concorda con la metafora: «È sicuramente una Chiesa che ha tante sfaccettature. E tra queste non può mancare l’attenzione ai poveri, che si tramuta nel mettere in gioco degli appartamenti ma anche il tempo dei volontari. L’aspetto però davvero interessante del tenere aperta questa finestra è l’accorgersi non solo di quello che stiamo dando, ma anche di ciò che stiamo ricevendo: l’esperienza degli appartamenti ci ricorda come il povero sia una persona normale, potrebbe essere e a volte è una persona che potrebbe sedersi di fianco a noi in chiesa, la domenica. I programmi che vengono attivati per risollevare queste persone sono gli stessi che attiviamo con noi stessi tante volte: così rompiamo le disuguaglianze e i rigetti, le distanze si accorciano e torniamo al centro tutti come persone».

«Compagni di viaggio dei poveri»

Accogliere chi è senza dimora è un'esperienza che risveglia l’umanità della comunità. «Questa chiesa-ospedale da campo – conclude don Marco – ha avuto anche i suoi fallimenti, ma sono tante le storie di relazioni che durano tutt’ora. In ogni caso, però, ci siamo resi conto che non siamo mai i padroni delle vite degli altri, nemmeno delle più fragili, ma possiamo essere compagni di viaggio, possiamo alzare lo sguardo verso il Signore e dirgli “Adesso tocca a te”».

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)