E se chiedessimo ai giovani un sì esplicito davanti alla comunità?

Il servizio in parrocchia come catechista o educatore è "a tempo determinato". Con il rischio, inoltre, che questi ruoli siano vuoti

E se chiedessimo ai giovani un sì esplicito davanti alla comunità?

E così ci si brucia presto. A parte qualche eccezione, il servizio come educatore (o catechista dell'iniziazione cristiana) nelle nostre parrocchie è una sorta di "contratto a tempo determinato", che si conclude in genere attorno ai 21-23 anni. Un contratto non rinnovato, e non per volontà del "datore di lavoro" ma per iniziativa dello stesso giovane, che a un certo punto dice di volersi prendere una pausa o "non ce la fa più" tra studio o lavoro, amici o fidanzato/a, tempo libero e voglia di fare altre esperienze.

Gli effetti di questo pensionamento anticipato sono devastanti. A pagarne le spese non sono solo i presbiteri e i referenti dei gruppi, che devono ricominciare la "caccia" al giovane disponibile che rimpiazzi il vuoto creatosi. Ma sono soprattutto i ragazzi del Tempo della fraternità o gli adolescenti a subirne le conseguenze più disastrose, perché salta quel rapporto di fiducia, complicità, affetto che tante volte per loro è il primo motore della partecipazione al gruppo. Inoltre i nostri giovani educatori mollano proprio sul più bello, a 23 anni, quando di per sé si inizierebbe a fare sul serio.

Alcuni miei amici ingegneri o informatici slittano da un'azienda all'altra, con danno del vecchio datore di lavoro che su di loro ha investito in formazione, sviluppo di competenze, dinamiche e programmi. Ti promettono sempre di più: uno stipendio più profumato, l'auto aziendale e tutta una serie appetitosa di benefit. Su questo piano noi non possiamo ovviamente essere concorrenziali. Ma possiamo lavorare sulla motivazione, cioè sul “perché” si fa un servizio in parrocchia. E il "perché" – purificate e approfondite le motivazioni iniziali («mi piace stare con i bambini… mi piace quell'animatrice») – è l'incontro personale con il Signore Gesù, l’unica motivazione che può reggere di fronte a tante altre proposte ed esperienze diverse. Certo, qualifichiamo il loro servizio investendo sulle “tecniche”, chiamiamo pure lo psicologo e il pedagogista. Ma non dimentichiamo che i nostri spazi, dal patronato alla Chiesa, le nostre proposte e i nostri gruppi sono luoghi di incontro e innamoramento.Per il Signore e il Vangelo.

I giovani rimarranno in parrocchia se sperimenteranno che restare offre loro una serie di benefit: l’opportunità di essere accompagnati a scoprire chi sono, la loro identità, e qual è il loro posto nella storia, la loro vocazione; la riscoperta del dono del battesimo e l’occasione di mettersi da adulti di fronte al volto di Gesù, anche attraverso l’Eucaristia e i sacramenti; il confronto con la Parola e la preghiera; il sentirsi attrezzati per vivere fuori della parrocchia, in quella tensione per unire fede e vita nelle sfide del giorno dopo giorno, «dove la tentazione di mimetizzarci e nasconderci sarebbe più forte, per la paura del giudizio degli altri» (Lettera dei giovani alla Chiesa di Padova 4,1).

Gli scout ci insegnano – almeno stando allo Statuto – che non si può fare il capo senza aver preso la “partenza” e aver fatto un’esplicita scelta di fede. Noi invece chiamiamo talvolta “educatori” o “catechisti” giovani che non sono nemmeno in un cammino di ricerca di fede (tralasciando la partecipazione all’Eucaristia domenicale?!?).

Ci può essere una sorta di “partenza”, cioè un atto esplicito in cui si esprime, davanti alla comunità, uno scatto di maturità e un’assunzione di responsabilità? Certo, questo comporterebbe una selezione in partenza. Ma d’altro lato rischiamo di usare dei nomi belli e profondi come “catechista” e “animatore” come nomina nuda, dei referenti vuoti.

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