Gli scrittori e la fede. Quando il genio è anche cercatore d’assoluto

I trent’anni dalla scomparsa di Graham Greene hanno riaperto una antica questione: che vuol dire essere scrittore cattolico, cosa diversa dall’essere cattolico e scrittore?

Gli scrittori e la fede. Quando il genio è anche cercatore d’assoluto

I trent’anni dalla scomparsa di Graham Greene hanno riaperto una antica questione: che vuol dire essere scrittore cattolico, cosa diversa dall’essere cattolico e scrittore? La risposta sta tutta in questa diversità: lo scrittore, il talento, talvolta il genio, è secondo alcuni amorale, il che vuol dire che la creazione, questo secondo fiat lux, segue sue leggi che talvolta vanno oltre quelle stabilite dall’uomo e dalla divinità stessa. E quando questo tipo di scrittore è immerso nello spirito cristiano, se ne vedono delle belle, perché si sfiorano territori inquietanti su cui il alita genio, talvolta combattendo con l’angelo di Dio, alla maniera di Giacobbe.

Se però andiamo in profondità, ci rendiamo conto che quella distinzione basata sulla posizione dell’aggettivo “cattolico” non è così radicale. Prendiamo i due esempi eccellenti nella nostra  – e non solo nostra – letteratura: Dante e Manzoni. Se cattolico scrittore significa che l’arte potrebbe venir soffocata dai “limiti” dogmatici di un credo, allora dovremmo dedurne che Dante è, poverino, limitato dal suo esser cristiano. Il che non passerebbe per la testa neanche al più sciagurato esploratore di dimensioni inesistenti; ci ha provato il buon Arno (guarda l’ironia dei nomi, un nemico germanico di Dante che si chiama come il fiume che bagna la città del Poeta) Widmann con scarsa credibilità, ne abbiamo parlato anche noi su Sir qualche settimana fa. Anzi, la fede è stata la molla che ha generato il capolavoro assoluto.

Manzoni è stato da giovane tra la schiera degli scettici, scientisti, illuminati (dalla ragione) prima di intraprendere un percorso di fede e, una volta iniziato quel cammino, ha scritto un altro capolavoro che però dietro alcune pagine (si vedano le descrizioni di don Rodrigo e del libertino Egidio, causa della sventura della monaca di Monza) nascondeva la conoscenza approfondita del male e del peccato.

Per non parlar di Petrarca, che pur essendo cristiano, non può far a meno di scrivere 365 liriche su Laura, vale a dire, come gli rimprovererà Sant’Agostino nel “Secretum”, rubando le lodi dovute al Creatore di quella creatura. Ed infatti l’ultima lirica sarà un compianto su se stesso in onore della Vergine. La fede non ha impedito ad un poeta che tra l’altro aveva preso gli ordini minori di innalzare ad una donna un altare che attraverserà indenne i secoli. E che dire di Boccaccio, che, come il cantore di Laura, aveva scelto gli ordini minori e che era, nonostante sia stato scritto il contrario, di profonda fede cristiana, il che non gli impedì di scrivere il terzo capolavoro del nostro Trecento prendendosi gioco dei religiosi non in quanto tali ma perché infedeli alla loro missione?

Siamo partiti da Greene, esempio fulgido di un cattolicesimo (assai raro negli uomini di cultura anglosassone) che non offusca il genio dello scrittore: in “Il console onorario” uno dei dolenti protagonisti è León, un non-più-sacerdote, che ha scelto di combattere per cambiare il destino di bambini malnutriti e destinati a morte precoce. Greene non ha parlato mai della parte apollinea di quella scelta, ma, come anche nel “Il potere e la gloria” di quella dionisiaca, lacerata e lacerante, senza contare che tutti gli altri personaggi portano con sé tradimenti, illusioni, alcolismo e contraddizioni.

Se volessimo tornare in Italia, basterebbe ricordare Mario Pomilio, di cui ricorre il centenario della nascita, che ci ha lasciato l’immagine di un cattolico scrittore che però nel suo essere anche scrittore cattolico, ha narrato, soprattutto in “Il quinto Evangelio”, con grande profondità la non linearità di una ricerca problematica del senso cristiano attraverso i secoli.

Non santini cattolici, gli scrittori cattolici, ma anzi, gente pronta a rimettere in discussione il se stesso del giorno prima di fronte all’altro, come testimonianza di sé non solo nelle parole.

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Fonte: Sir